Il Sole 22.5.16
La paralisi della Corte suprema Usa
Se la democrazia perde l’equilibrio dei poteri
di Guido Rossi
La
grande crisi finanziaria e la recessione che hanno colpito l’Occidente
non riescono ancora a trovare, nonostante le incalcolabili e spesso
indigeribili ricette di economisti e politici, una soluzione dignitosa.
Ma quel che è più grave è che siffatta crisi si è accompagnata con una
rottura, per la quale non esistono neppure ricette, del più solido
meccanismo di governo politico, che era costituito dai principi che
Montesquieu aveva lasciato alle democrazie liberali con la dottrina
della divisione dei poteri: legislativo, esecutivo e giudiziario, a
totale ed assoluta difesa della libertà contro il dispotismo, il cui
fondamento sta appunto nella concentrazione dei poteri.
Assistiamo
alla rottura più grave con il venir meno della capacità del potere
legislativo di affrontare la globalizzazione e l’enorme sviluppo
tecnologico che l'accompagna. Non a caso, il 1° marzo 2014, il New York
Times pubblicava come editoriale “The Dying Art of Legislating”, dove
elencava l'incredibile abbandono del Congresso americano da parte di
molti suoi membri, riconosciuti capaci legislatori (21 membri della
Camera e 6 senatori), frustrati e disgustati dalla incapacità del
legislativo di proporre qualsivoglia legge per affrontare una situazione
interna ed esterna che non si presentava così difficile da anni.
E
non è neppure un caso che anche la situazione economica non sia, dopo
così tanto tempo, affatto migliorata e che anzi, come hanno accusato
Krugman e Reich, l’assopimento quasi totale della politica antitrust ha
fatto prosperare i monopoli in generale e, nell'ambito della nuova
economia, i “Barons of Broadband” e il loro potere monopolistico nelle
telecomunicazioni. Il riferimento ai “Robber Barons” del capitalismo
degli anni ’20 del secolo scorso non è per nulla casuale.
La
situazione americana si è aggravata nel febbraio di quest’anno, con
l'improvvisa scomparsa di uno dei giudici più influenti della Corte
Suprema: Antonin Scalia. Nominato circa or son trent’anni dal Presidente
Reagan, ha certamente condizionato, con la sua dottrina e il suo
carattere, spesso aggressivo, le maggiori decisioni della Corte Suprema.
Pur facendo parte dell’ala conservatrice, e determinando sovente le
decisioni con una maggioranza di 5 a 4, in molti casi se ne discostò
scrivendo “dissenting opinions” rimaste esemplari. La miglior
definizione della sua dottrina che considerava la sola valida
Costituzione, la “dead Constitution”, una Costituzione morta e non una
“living Constitution”, cioè una Costituzione vivente, dove ogni Giudice
avrebbe potuto inserire, nell’interpretazione, le sue ideologie
politiche è contenuta nel recente libro di Bruce Allen Murphy, “Scalia: a
Court of one”.
Spetterebbe costituzionalmente ora al Presidente
Obama nominare il nono giudice, ma il Congresso a maggioranza
repubblicana in più sedi ha già dichiarato che non approverà mai una sua
nomina. E non è un caso che il giudice conservatore Alito abbia
dichiarato, facendo anche riferimento a casi passati, che la Corte
Suprema può benissimo essere composta da membri di numero pari. Ed è
quello che finora è successo, anche nelle più importanti decisioni che
dovevano essere prese. La Corte Suprema, con votazioni di 4 a 4, ha
rinviato alle Corti inferiori senza decidere argomenti importanti come
le restrizioni in tema di aborto alle cliniche in Texas, le decisioni
sull’immigrazione e l’obbligo per tutti i lavoratori dei servizi
pubblici in California anche coloro che non sono iscritti di pagare la
quota al sindacato. La Corte Suprema sembra quasi ibernata e uscita
dalla posizione di protagonista che ha sempre avuto nella politica
americana, riproducendo nel suo ambito una divisione ideologica che la
porta all’immobilismo.
Altre volte nel populismo dei partiti
politici e nel disastro economico che è andato aggravandosi, il potere
giudiziario ha assunto funzioni di supplenza, prendendo ad esempio
decisioni drammatiche nelle crisi politiche. Questo spiega il caos che
sta succedendo in Brasile, nei confronti dell’impeachment della
Presidente Dilma Rousseff e dei provvedimenti contro l’ex Presidente
Lula. In un lunghissimo articolo sulla London Review of Books dell’8
aprile, dal titolo “Crisis in Brazil”, Perry Anderson presenta un
elegante e dettagliato paragone, pur con le relative differenze, tra
l’Italia di Tangentopoli degli anni ’90 e il Brasile di oggi. La
confusione è enorme, i disordini sociali elevati e gli attacchi alla
politica e allo Stato in generale alimentano un diffuso populismo,
sicché si dovrà attendere molto per un chiarimento. Anche negli Stati
Uniti le stesse elezioni presidenziali sono condizionate dalla
possibilità o meno di ricostituire la completezza della formazione della
Corte Suprema, a dimostrazione di quanto il potere giudiziario sia
considerato rilevante.
Gli attacchi alla magistratura, anche
attraverso intralci al suo funzionamento, sono estremamente pericolosi.
Nel nostro Paese, è ben singolare che uno dei maggiori centri del potere
giudiziario contro la corruzione, cioè la Procura di Milano, non abbia
da mesi il suo capo, mentre si aprono ingiustificate polemiche nei
confronti della libertà politica di espressione dei giudici. È dunque
venuto il momento che l’equilibrio tra i poteri dello Stato sia
ristabilito e garantito, ad evitare derive di ogni tipo, e che la
giustizia torni ad essere il perno della democrazia.