sabato 21 maggio 2016

Il Sole 21.5.16
Il rebus Libia e il ruolo del generale Haftar
di Vittorio Emanuele Parsi

Il filo conduttore principale dell’interessamento internazionale per la Libia e per il Levante è essenzialmente uno: la lotta a Daesh. Se rispetto alla Siria fu la sensazione che il califfato potesse dilagare a spingere la “comunità internazionale” a convocare la prima conferenza di Vienna lo scorso anno, in Libia fu la comparsa di Daesh a fornire impulso a quella romana del 13 dicembre scorso. Il 16 maggio a Vienna lo schema si è ripetuto ed è quindi soprattutto rispetto all’obiettivo della lotta contro Daesh che devono essere valutati i provvedimenti proposti e ancor di più gli sviluppi che si stanno verificando in questi giorni.
La decisione di provare a rilanciare l’ipotesi di un governo di transizione a Damasco, del quale saranno chiamati a far parte anche esponenti del regime e che non prevede il preventivo allontanamento del presidente Assad, rispecchia perfettamente la priorità della lotta a Daesh, più che mai cruciale dopo gli attentati di Parigi e Bruxelles. Grazie al massiccio appoggio russo e a quello costante dell’Iran e degli Hezbollah libanesi, il regime sta infatti giocando un ruolo chiave nell’offensiva militare contro i seguaci di al-Baghdadi (oltre che contro le forze ribelli in generale). Sarebbe evidentemente folle privarsi di assetti che si stanno rivelando ben più cruciali dei raid aerei della coalizione guidata da Washington, per cui, nel nome della nuova “war on terror” l’Occidente non solo accetta la presenza russa ma anche la sua posizione negoziale, da sempre più possibilista sul futuro del regime.
Per le stesse ragioni, rispetto alla Libia, se ribadiva il sostegno al governo di Serraj, la conferenza di Vienna, “apriva” nei confronti del generale Haftar, uomo forte del governo di Tobruk sostenuto da sauditi ed emiratini e, soprattutto, dall’Egitto di al-Sisi. La logica era evidentemente la stessa: mentre il governo di alleanza nazionale (Gan) fa estremamente fatica ad affermarsi e, militarmente, deve appoggiarsi alle milizie islamiste di Misurata, Haftar ha uno strumento militare assai più robusto, che lo spinge a proporsi come solo interlocutore affidabile nella guerra contro Daesh. Un compromesso quindi, ma dall’esito ben più incerto.
Nel giro di 48 ore, infatti, il generale Haftar ha chiarito con estrema rudezza, che non intende mettersi agli ordini di Serraj, mentre continuerà una lotta senza quartiere contro terroristi e “Fratelli musulmani”. Proprio l’inclusione della “Fratellanza” tra i suoi nemici chiarisce due punti: che nessun accordo è possibile tra Haftar e Serraj (visto che le sole forze militari del secondo appartengono a movimenti che si richiamano ai Fratelli) e che Haftar non intende assolutamente concedere che nella “sua” Libia i nemici di al-Sisi possano avere un ruolo.
Così, quella strada che in Siria sembrerebbe aprirsi (il condizionale è d’obbligo) verso un governo di transizione che possa escludere solo Daesh appare invece preclusa in Libia: sia per motivi “domestici” (Haftar è convinto di poter vincere e quindi è poco disposto a trattare) sia per motivi regionali (l’appoggio di Egiziani, sauditi ed emiratini ad Haftar).
Per tentare di consentire anche a Serraji di inserirsi nella lotta a Daesh si pensa di alleggerire l’embargo sulle armi. Comprensibile: a condizione però di sapere che seppur ciò portasse a una maggiore efficacia della lotta a Daesh, comunque alimenterà inevitabilmente la guerra civile in corso, prolungandone la durata.
Il governo italiano è stato tra chi si è maggiormente speso per il varo di un governo di unità, in grado di ottenere l’appoggio di quello illegittimo (e islamista) di Tripoli e di quello (legittimo fino al giorno prima) di Tobruk, del quale Haftar è il capo militare. A favore di tale scelta militavano ragioni sia prosaiche sia di principio: solo un nuovo governo poteva garantire l’unità del Paese e con ciò la continuità dei contratti e delle concessioni petrolifere (che un frazionamento della Libia avrebbe reso assai più incerta); solo un nuovo governo avrebbe dato concretezza a quella “soluzione politica”, capace di andare anche oltre la lotta a Daesh (con migranti e stabilizzazione in primo piano), per cui l’Italia si era sempre impegnata con estrema fermezza, di fronte all’ondivagare degli alleati (Obama incluso).
Ora, l’impossibilità della quadratura del cerchio rischia di far pagare proprio a Roma il prezzo maggiore (oltre che alla Libia, evidentemente). Se Haftar dovesse dimostrarsi affidabile nella lotta contro Daesh, infatti, gli americani potrebbero essere disposti a “mollare” Serraj: anche come forma di compensazione a sauditi, qatarini ed egiziani per il boccone amaro che, sempre nel nome della lotta al califfo, hanno dovuto ingoiare in Siria, a favore di Assad e dei suoi patroni russi e iraniani.