Il Sole 18.5.16
Renzi e il difficile ritorno del Pd in piazza
di Lina Palmerini
«Torniamo
nelle piazze, parliamo al Paese»: l’appello di Renzi a uno sforzo di
mobilitazione in vista del referendum mette il Pd di fronte a una prova
davvero fuori moda per un partito. La capacità, cioè, di coinvolgere la
società, per giunta su un tema istituzionale che è il terreno su cui si è
consumato lo strappo con molti cittadini.
«Portare i cittadini a
votare», chiedeva ieri Renzi sia ai segretari regionali che ai gruppi
parlamentari. Ha chiesto anche unità, la fine delle divisioni interne,
ma questo era più scontato. La novità era invece in quella sfida nella
sfida: dimostrare cioè la capacità – da politici – di saper stare in
mezzo alla gente, spiegare, convincerla. «Sei mesi a testa alta», diceva
il premier sapendo che ormai il mestiere della politica si gioca solo
sulla difensiva, non all’attacco.
Insomma, quel discorso fatto a
sera tardi ai parlamentari suonava come un ritorno al mestiere vecchio
dei partiti, alla capacità di saper “entrare” nella società e saperla
coinvolgere. Perché in ballo c’è naturalmente la vittoria del sì al
referendum ma prima di tutto c’è una prova non banale per un Pd che da
tempo ha smesso di fare quello che faceva. O almeno ha smesso di
provarci passando da una crisi all’altra, da una teoria di “partito
liquido” a quella di un nuovo centralismo o verticismo per cui tutto
comincia e finisce dal segretario e dai suoi fedelissimi.
E dunque
l’appello a sei mesi di lavoro insieme, allestendo “tavolini” richiama a
un lavoro contrario a quello che si è fatto finora e che Renzi ha
avallato, forse favorito. Il ritorno a quello che si faceva una volta
con le sezioni, i territori, che si organizzavano anche attraverso la
sponda di altre associazioni. Tutto questo è in disuso da tempo mentre
il referendum riporta tutti - e in primo luogo il premier - con le
lancette indietro. Perché se è vero che sono almeno 20 milioni gli
elettori da coinvolgere, è chiaro che non basta il “giglio magico” o la
sola personalità del leader. Serve qualcosa intorno di unito e
strutturato. E il referendum, alla fine, sarà anche questo, una prova di
esistenza in vita del Pd, non solo del suo segretario che si gioca il
suo destino politico.
Una scommessa, appunto, che non solo
contraddice un’impostazione sul partito tenuta sin qui da Renzi, ma che
arriva nel periodo più buio di declino della partecipazione e delle
fiammate dell’anti-politica e dell’anti-casta. Una fase che ha portato
un Movimento a essere quasi la prima forza del Paese, come è accaduto ai
5 Stelle nel 2013 dopo solo pochi anni di vita e con un comico come
leader. Una crisi che il centro-sinistra aveva da tempo sentito e curato
non solo con la nascita del Pd ma con l’invenzione delle primarie che
sono diventate la massima prova di mobilitazione popolare. Nate
anch’esse per arrestare il declino di partecipazione, dopo i primi
entusiasmi dei milioni in fila, sono ora diventate un momento più
critico che benefico. Di certo un’altra prova popolare fallita. E questo
è il salto logico che propone Renzi: dai peggiori gazebo ai migliori
“tavolini” pro-sì.
È vero che nel suo discorso di ieri larga parte
ha avuto anche l’appello all’unità del partito, la fine delle
divisioni, una sorta di moratoria in vista di un obiettivo più grande.
Appello in qualche modo scontato e risposta altrettanto scontata. Cioè
un sì condizionato. La minoranza chiede che prima vengano chiarite le
norme sull’elezione dei senatori: un punto che durante l’esame del
Senato fu oggetto di lunghe trattative. Alla fine, però, non saranno le
divisioni a essere dirimenti. Oltre la minoranza c’è un test più
cruciale: se davvero la macchina del Pd, rimasta ferma per molto, avrà
la forza per accendersi.