venerdì 13 maggio 2016

Il Sole 13.5.16
I 52 dazi «scudo» dei prodotti italiani
di Laura Cavestri

Si va dai mandarini (clementini compresi) ai tubi d’acciaio saldati, dalle biciclette alle stoviglie, passando per aspartame, furfuraldeide, piastrelle e pannelli solari.
Ad oggi, sono in tutto 52 i prodotti cinesi su cui la Ue – in base al protocollo del 2001 sull’accesso nella Wto della Repubblica popolare cinese – ha imposto dazi doganali. L’unica arma di difesa in mano a Bruxelles per riequilibrare le asimmetrie commerciali di beni prodotti e venduti sottocosto all’estero sono i dazi anti-dumping. E sebbene – secondo la Commissione Ue – riguardino appena l’1,3% del totale dei prodotti importati nella Ue da Pechino, non averli più – conseguenza diretta del riconoscimento, al Paese, dello status di economia di mercato – potrebbe costare caro.
In particolare all’Italia, che rischierebbe di perdere, secondo uno studio Ue, sino a 400mila posti di lavoro.
Su di noi graverebbe il 28% della perdita di posti di lavoro in tutta l’Unione. Inoltre – sempre sempre secondo i dati della Commissione europea – oltre il 40% delle imprese europee tutelate dai dazi antidumping sono italiane.
Misure su oltre 50 prodotti
Tuttavia, su oltre 50 prodotti “protetti”, 14 riguardano la chimica (che colpisce maggiormente la Germania e dove sinora si sono per lo più concentrare anche le poche, circa 15, contromisure cinesi verso gli esportatori europei) e 13 la siderurgia. Si va dalle barre e tondini per il cemento armato (9,2-13%) agli ultimi dazi – sui laminati a freddo – che sono arrivati a febbraio (da 13,8% a 16%, ma se il laminato è inox si sale dal 20,9 al 25,2 per cento). Ad agosto, attesa la “scure” anche su tubi non saldati, lamiere pesanti e laminati a caldo.
Altro comparto preoccupato è quello della meccanica e, in particolare, dell’industria delle ruote. Anche qui nel 2010 Bruxelles ha deciso di adottare un dazio fino al 20,6% sull’importazione di ruote cinesi in alluminio.
Ne è stata richiesta la proroga da parte delle aziende europee, mentre anche il Dipartimento del Commercio Usa ha stabilito dazi antidumping fino all’87,99% sui pneumatici cinesi. Dazi Ue anche sulle biciclette (sino al 48,5%) e sui pannelli solari (sino al 47,7%) che prima di essere introdotti hanno mandato a soqquadro la filiera produttiva tedesca.
Infine c’è il caso degli agrumi cinesi ( e dei prodotti usati nell’agricoltura) cui si è aggiunta la vendita di un prodotto sui mercati esteri a un prezzo più basso rispetto al quello praticato in patria per “conquistare” il mercato europeo. Una vicenda sollevata nel 2007 dalla Federazione spagnola delle industrie conserviere su alcune tipologie di agrumi preparati o conservati. Nel 2008 la Ue dà ragione una prima volta ai ricorrenti e introduce un dazio antidumping sui prodotti incriminati.
E la risposta cinese? Sinora il contenzioso è stato basso: dal 2009 a oggi la Cina ha fatto ricorso in appena una decina di casi (6 verso gli Usa e 4 verso l’Europa).
Come si arriva ai dazi?
Di fatto, il procedimento – che può portare all’applicazione di un dazio antidumping (per cinque anni rinnovabile, non automaticamente) – è di tipo amministrativo regolato dal diritto comunitario e condotto dalla Commissione Ue d’ufficio o dietro presentazione di un ricorso da parte dei soggetti interessati.
Possono presentare ricorso i produttori del bene in concorrenza con quello importato che rappresentino almeno il 25% del totale della produzione Ue, anche attraverso le proprie associazioni di categoria, direttamente alla Commissione Ue o al ministero dello Sviluppo economico.
A questo punto Bruxelles, può decidere di aprire una procedura – che deve concludersi entro 15 mesi – anche se, dopo 60 giorni dall’inizio dell’iter, possono essere imposti dazi provvisori.
Se si arriva ad accertare l’esistenza di un comportamento di dumping, i dazi sono diretti ad innalzare il prezzo finale del bene importato fino al livello dei prezzi vigenti nel mercato d’origine della merce o ( se non è possibile determinarlo) in un altro mercato analogo per livello di sviluppo.
La percentuale, spesso, non è unica, perchè, applicandosi a tutti i produttori del Paese terzo, tiene conto di livelli di dumping più o meno elevati o minimi e del grado di “collaborazione” di quelle stesse imprese nel “ravvedersi” e allinearsi il più possibile alla concorrenza.