il manifesto 7.5.16
Shakespeare va ad Hollywood
Anniversari.
Secondo il Guinness dei primati le opere dello scrittore sono le più
adattate al cinema e in tv con quattrocentoventi rifacimenti
di John Bleasdale
Edizione del
07.05.2016
Immaginate
William Shakespeare che va a Hollywood. Cosa potrebbe accadere? Si
tratterà di uno scontro tra la cosiddetta «cultura alta» e quella
commerciale? Una lotta del poeta inglese più celebrato contro i soldi
sporchi dello spettacolo? L’artista geniale sarà distrutto dalla
macchina industriale dei sogni? No. William Shakespeare a Hollywood si
troverebbe proprio bene. Naturalmente, il suo agente avrebbe qualcosa da
ridire sul trasloco: «Ma William, là non ci sono storie originali.
Tutto è stato fatto e rifatto mille volte». «Va benissimo», gli
risponderebbe Shakespeare: «anch’io rubo quasi tutto. Da Holinshed per i
drammi storici, da Plutarco per quelli classici romani, e anche dai
romanzieri italiani ora dimenticati per le mie commedie, e non do a
nessuno alcun credito». «Però William, lì si trovano solo sequel e
franchise … » «Meglio ancora», risponderebbe il bardo: «sono stato io a
iniziare ad usare i numeri romani; prima di Rocky II, c’erano Riccardo
II, Riccardo III. Hunger Games: il canto della rivolta parte 2? Io ho
fatto Enrico IV parte 2 quattrocento anni fa. E l’idea degli spin-off
che prende un personaggio popolare per farne un film ‘stand alone’? «Già
fatto! Quando la gente impazziva per la mia creatura comica, Falstaff,
io scrissi un dramma tutto suo: Le allegre comari di Windsor». E così
Shakespeare va a Hollywood e oggi lavora per la Marvel con qualche serie
televisiva in fase di svilluppo per HBO.
E Hollywood ricambia
l’affetto, ma non solo. Secondo il Guinness libro dei primati William
Shakespeare è l’autore più adattato nella storia del cinema. Dai
classici del cinema muto ad oggi ci sono state più di quattrocento
versioni delle opere Shakespeariane sugli schermi grandi e piccoli,
iniziando proprio nell’anno 1900 con un Amleto francese e la famosa
attrice Sarah Bernhardt. Akira Kurosawa ha creato forse i due
adattamenti più ammirati con il suo Trono di Sangue, un matrimonio
sanguinoso fra la tragedia brutale di Macbeth e l’antica tradizione
teatrale giapponese ‘No’; e Ran, bellissima versione jidaejeki di Re
Lear ambientata nel Giappone feudale. Non essere strangolati dai versi
in lingua originale è un vantaggio. Le versioni in lingua originale
devono sempre avere il coraggio di tagliare parole e discorsi scritti
dall’autore più famoso della letteratura inglese. Abbiamo avuto il
campione della tradizione teatrale inglese, Laurence Olivier che ha
vinto la seconda guerra mondiale con l’Enrico V nel 1944 e poi l’Oscar
con il suo Amleto nel 1948. Il suo figlio d’arte Kenneth Branagh ha
tentato di esorcizzare il fantasma di suo «padre» con la sua versione di
entrambe le opere, poi con altre tre da regista e altre ancora come
attore soltanto. Il suo Amleto del 1996 ha temerariamente fatto vedere
una versione integrale, anche se rimane il dubbio che Shakespeare stesso
abbia mai vista una versione completa sul palcoscenico durante la sua
stessa vita – ‘le due ore di traffico sul palcoscenico’ a cui si
riferisce il Prologo di Romeo e Giulietta non sono un caso, e la
versione di Branagh raddoppia questo numero aggiungendo perfino qualche
minuto in più. Branagh non è stato il primo né sarà l’ultimo a farsi
travolgere dalla passione per la lingua di Shakespeare. Ne L’ultima
tempesta di Peter Greenaway John Gielgud – forse l’attore teatrale
classico più noto della storia – recita Prospero ma recita anche quasi
tutti gli altri ruoli, un mago innamorato della sua stessa voce che
trasforma il mondo intero in un monologo. Greenaway appartiene all’ala
più sperimentale del cinema britannico – Derek Jarman ha realizzato
anche una versione punk della Tempesta – ma Shakespeare è spesso la
fonte per un cinema di prestigio come i film di Branagh, Il mercante di
Venezia di Michael Radford o le versioni firmate da Franco Zeffirelli
che vede le opere come artefatti di lusso, tessuti ricchi e splendenti,
con una star o due ad affollare la scena, e rispettoso al punto da
essere fatto quasi apposta per gli studenti di liceo. L’esempio più
estremo lo troviamo nella nuova versione di Romeo e Giulietta dal
creatore di Downton Abbey, che ha preso in prestito il fascino ma senza
la fatica della parola shakespeariana.
Torniamo invece ad
Hollywood dove Shakespeare viene preso un po’ meno con le pinze. C’è
sempre stato un senso di liberazione nei confronti di Shakespeare – da
quando Il sogno di una notte di mezz’estate mostrava James Cagney nel
ruolo di Bottom, o dal magnifico Marc Antony di Marlon Brando nel Giulio
Cesare o la versione di fantascienza della Tempesta, Il pianeta
Proibito. Il regista americano più riuscito, più shakespeariano fu il
maverick Orson Welles con Macbeth, Otello e il suo capolavoro Falstaff,
in cui diverse opere vennero tagliate e ricucite insieme in una
confezione magnifica. Due anni prima della maratona di Amleto firmata
Branagh, Disney ne fece una versione più simpatica ed intensa con il Re
Leone. Anche nel 1996, Romeo + Giulietta di Baz Luhrmann uscì nelle sale
come una ventata di aria fresca, una versione che guardava dall’altra
parte, giovane, piena di sesso e droga, un cuore che batte ad un ritmo
fra il pentametro giambico e l’ Hip-Hop, il testo ridotto all’
essenziale e la giovane e sfavillante bellezza di Claire Danes e
Leonardo di Caprio.
L’innamoramento di Hollywood nei confronti del
Bardo inglese è più forte che mai. Le nuove versioni di classici, come
il Macbeth dell’ australiano Justin Kurzel, o di opere meno conosciute,
come il Coriolano di Ralph Fiennes e il Cimbelino di Michael Almereyda,
regista di Amleto 2000 di qualche anno fa ne sono la prova. Joss Whedon
vuole realizzare un film veloce tra un Avengers e un altro – e cosa fa?
Gira Much ado about nothing in un paio di settimane. Il showrunner di
Buffy e il regista preferito della Marvel trova in Shakespeare un
collega, un contemporaneo.