il manifesto 7.5.16
Archetipi dell’eternità
Filosofia.
Come sono stati definiti gli archetipi del tempo dalla filosofia greca e
dal cristianesimo, fino all’epoca della rivoluzione russa, una breve
storia che si affaccia nell’abisso dell’infinito
di Raffaele K. Salinari
Che
cos’è l’eternità? Cos’è il tempo? Possiamo conoscerli? Divenire noi
stessi figure immutabili in un tempo che inesorabilmente muta? Ogni
epoca ha costruito la sua visione dell’eternità, strumentalizzandola a
fini politici o religiosi. Borges, nel suo Breve storia dell’eternità,
ci parla di due grandi concezione del tempo, quella classica, con
riferimento a Platone ed ai presocratici, e quella cristiana, a partire
da Ireneo con l’affermazione del suo dogma trinitario.
L’eternità nella filosofia antica.
Nel
libro III, 7 delle Enneadi, Plotino, l’ultimo maestro dell’antichità
classica, riassume, dal suo punto di vista neoplatonico, o forse post
platonico, la concezione classica della relazione tra eternità e tempo.
L’egizio parte da una affermazione radicale: se vogliamo comprendere il
tempo dobbiamo prima indagare le natura dell’eternità poiché questa è
sia il suo immobile contenitore sia il suo contenuto.
Per i
«filosofi sovraumani», come Giorgio Colli definisce i presocratici,
Parmenide, Eraclito, Anassimandro, Anassimene, Empedocle, l’eternità è
tutt’uno con l’Essere, l’Uno, cioè il Principio intelligibile che viene
«prima di tutto ciò che esiste». Per Plotino esso ha creato la realtà
fenomenica del cosmo per emanazione, per estasi, cioè uscendo fuori di
sé, ma venendo a sua volta ricreato attraverso il ritorno a se stesso
dell’essenza divina presente in ogni forma della creazione: “Infatti il
mondo intelligibile e l’eternità contengono entrambe le stesse cose”
dice al punto 7,2 della terza Enneade. “L’occhio con il quale io guardo
Dio, è lo stesso occhio con il quale Dio guarda me; il mio occhio e
quello di Dio sono lo stesso occhio, lo stesso vedere, e riconoscere ed
amare”, ripeterà secoli dopo il mistico Meister Eckhart. E dunque, in
questa concezione circolare di continua creazione e ricreazione dell’Uno
da parte del creato, non esiste nessuna differenza tra l’Essere e
l’eternità dato che, riprendendo la definizione platonica del Timeo,
esso «non era, né sarà, ma è».
Riferisce Eustochio, suo medico e
allievo, che prima di morire, coerente con questa visione del circolo
ermeneutico dell’Essere da parte degli esseri, in altre parole della
rigenerazione della Zoé al di fuori del tempo, da parte delle sue Bìos
create nel tempo, Plotino abbia esclamato: “Sforzatevi di restituire il
Divino che c’è in voi stessi al Divino nel Tutto”.
E così il tempo
altro non è che un momento di eternità in movimento che si affanna
nella sua corsa a spirale intorno all’anima delle cose e le rende così
transeunte. Ogni cosa creata è soggetta alla morte poiché esiste nel
tempo e con esso si muove: trascorre attraverso i suoi momenti sempre
diversi anche se scaturiti dalla stessa eterna essenza. Come ricorda
Eraclito «tutto scorre, non ci si può bagnare due volte nell’acqua dello
stesso fiume». Solo l’increato quindi, l’Essere, è immerso pienamente e
stabilmente nella sua eternità che di esso è un attributo essenziale.
E
allora, se così stanno le cose, come ricomporre la scissione fenomenica
tra Creatore e creatura, come ripristinare l’unità del cosmo, l’intima
compenetrazione tra l’essenza comune e le esistenze particolari da essa
generate? In altre parole: come far convergere in un unico punto
metatemporale eternità e tempo?
Dice Borges commentando
l’apparente aporia: “Questa avvertenza preliminare, tanto più grave se
la riteniamo sincera, sembra annientare ogni speranza di intenderci con
l’uomo che la scrisse (Plotino). Il tempo è per noi un problema, un
inquietante ed esigente problema, forse il più vitale della metafisica:
l’eternità, un gioco o una faticosa speranza”. Lo scrittore argentino
passa poi a considerare la possibile soluzione del problema analizzando
in primis il senso in cui il tempo si muoverebbe. Ma questa strada porta
soltanto al punto di partenza: come in un labirinto circolare. L’autore
dell’Aleph afferma che nulla ci è dato sapere di certo del tempo se non
che esso scorre; forse dal passato verso il futuro, come comunemente si
avverte, ma anche, perché no, dal futuro verso il passato: «notturno il
fiume delle ore scorre dalla sua fonte che è il domani eterno» recita
un verso di Miguel de Unamuno.
Per alcune scuole filosofiche
indiane addirittura il tempo presente non esiste dato che «l’arancia sta
per cadere dal ramo, o è già a terra: nessuno la vede cadere». In Altre
inquisizioni il già direttore della Biblioteca Nazionale Argentina
introduce poi, come ulteriore elemento di complessità, l’evidenza che se
il tempo è un processo mentale «come possono condividerlo migliaia di
individui, o anche due soli di essi?». Non abbiamo prove di nessuna di
queste ipotesi o paradossi, conclude, se non l’unica certezza generica –
ma il generico può essere più intenso del concreto ci ricorda Rilke –
del suo fluire entro quella stessa eternità che sembra averlo generato.
Ed
ecco che Plotino, a questo punto disperante e disperato, introduce
forse il vero argomento della sua speculazione filosofica, la sua
versione ante litteram di quella che Severino Boezio, tre secoli dopo,
nel 525, in attesa dell’esecuzione capitale, riprenderà nel suo De
philosophiae consolatione con la celebre definizione: “Aeternitas est
interminabilis vitae tota et perfecta possesio”. La domanda dell’antico
maestro di Licopoli è infatti la stessa dell’antimoderno maestro di
Buenos Aires: “Bisogna dunque che anche noi partecipiamo dell’eternità,
ma come se siamo nel tempo?”. La risposta plotiniana è sconvolgente: non
si tratta di capire l’eternità attraverso la comprensione della misura o
del senso del tempo che in essa e da essa fluisce, quanto di
comprendere che il tempo è la vita dell’anima e che essa, discendendo
direttamente dall’Essere, è il nostro tramite per l’eternità.
Qui,
la suggestiva espressione di Keatz «fare anima», ripresa da Hillman per
illustrare la sua concezione psicanalitica dei miti greci, assume un
significato di merito e di metodo. Il problema è che l’anima è preda di
una «potenza inquieta» che la distoglie dalla percezione dell’Essere e
la riporta continuamente «a far passare in altro» ciò che invece si deve
contemplare estasiandosi: in questo modo perverso il tempo «imita
soltanto l’eternità volgendosi intorno all’anima, sempre disertore di un
passato, sempre anelante l’avvenire».
Che fare? Poiché
necessariamente il tempo è immagine dell’eternità, l’anima deve vivere
la sua relazione con le cose sensibili così come il tempo vive la sua
relazione con l’eterno; in altre parole «fare anima» significa l’estasi
di fronte al Mondo, il ritrovare lo stupore infantile nei confronti del
creato. Solo questa estasi terrena, analoga a quella che l’Essere ha
vissuto quando, uscendo da sé, ha generato il Cosmo, può riportare
l’anima al suo creatore immergendola nell’eternità e così contribuire a
rigenerarla.
È dunque il tempo estatico quello che riunisce in un
unico momento metatemporale tempo ed eternità. Da cosa partire per
estasiarsi? Qui l’autore delle Enneadi riprende il filo del suo maestro
Platone e ci ricorda che la Bellezza è l’anima del Mondo: Afrodite,
l’anadiomenon, la sempre rigenerata dalle acque delle creazione – dalla
spuma (afros in greco) nata attorno ai genitali di Urano, come narra
Esiodo nella sua Teogonia – è il veicolo che ci farà estasiare al suo
cospetto. Eros, il grande daimon della creazione vitale, ci spingerà
oltre l’apparenza delle forme che scorrono per svelarci l’essenza
ontologica della Bellezza. Come per Platone, anche per Plotino la follia
che viene dalle Ninfe sarà la strada verso il ricongiungimento con
l’Uno.
I posseduti dalle Ninfe, i «linfatici», come li chiamavano i
latini (lymphaticos), e come sino alla prima metà del secolo scorso
venivano chiamati i bambini dall’incarnato pallido, tendenzialmente
gracili e psichicamente sensibili, sognatori propensi a perdersi vivendo
i loro stessi sogni ad occhi aperti – tra i quali i medici annoveravano
lo scrivente – costoro, dicevamo, sono allo stesso tempo immersi in una
felicità ineffabile, estatica, che Aristotele, nella sua Etica a
Eudemo, chiama eudaimonía, per distinguerla qualitativamente dagli altri
quattro tipi di felicità: «O forse la felicità non può venire a noi in
nessuno di questi modi, bensì in due altri, e cioè o come accade ai
nymphólēptoi e ai theólēptoi, che entrano come in una ebbrezza
(enthousiázontes) per ispirazione di un essere divino, o altrimenti
attraverso la fortuna (molti infatti dicono che la felicità e la fortuna
sono la stessa cosa)».
Per ciò felicità e fortuna condividono la
stessa natura, come lo stato di chi è posseduto dalle Ninfe o da un dio.
Qui bisogna ribadire che, per i Greci, e dunque anche per l’ellenizzato
Plotino, la possessione divina era una modalità primaria per accedere
alla conoscenza dell’Invisibile, della «prima materia» della quale sono
composte tutte le cose, l’essenza immutabile del Mondo.
Ed è
proprio di questa essenza che sono fatte le Ninfe, espressione
archetipica delle potenze elementari e soprattutto metamorfiche, come il
tempo che scorre e cambia la forma esteriore delle cose. Il tempo
«grande scultore» come scriveva Marguerite Cleenewerck de Crayencour, al
secolo Marguerite Yourcenar. Come Eros, fluido nella forma, ed Afrodite
dai dardi più veloci nata dalla spuma spermatica, le Ninfe sono
l’eternità ed al contempo ce la offrono: il mutevole dell’Invisibile che
ha l’acqua come elemento materiale; le fonti e i fiumi come labirinti
nei quali perdersi, il mare e gli stagni come occhi che ci mirano
insonni, sono tutte immagini di essa.
La seconda eternità
«Il
miglior documento sulla prima eternità è il quinto libro delle Enneadi,
sulla seconda, o cristiana, l’undicesimo libro delle Confessioni di
sant’Agostino». Così Borges chiarisce il passaggio dalla visione
classica a quella cristiana dell’eternità. La nuova religione universale
non poteva imprimere il suo sigillo all’eternità, far coincidere l’Evo
cristiano con una nuova concezione monoteista del tempo. La visione
platonica del rapporto tra eternità e tempo subisce dunque una mutazione
drammatica in seguito alla nascente egemonia culturale del
cristianesimo.
L’eternità cristianizzata è il prodotto
dell’incontro tra le tre figure trinitarie. Primo Artefice di questa
mutazione ontologica che la allontana dalla diretta contemplazione
dell’umanità per sottometterla al divino, è Ireneo (130-202), martire
sotto l’imperatore Marco Aurelio e Padre della Chiesa. Il vescovo di
Lione decreta dal dirupo di Fourvière, l’antico sito romano di Forum
vetus, che il Verbo è generato dal Padre, lo Spirito santo è prodotto
dal Padre e dal Verbo (il Cristo); da queste due innegabili operazioni
dogmatiche, ci fa notare Borges: “Gli gnostici solevano inferire che il
Padre era anteriore al verbo, ed entrambi allo Spirito: questa
inferenza, dunque, dissolveva la Trinità: Ireneo chiarì che il duplice
processo – generazione del Figlio dal Padre, emanazione dello Spirito da
ambedue – non accadde nel tempo, ma esaurisce di colpo il passato, il
presente e l’avvenire. Il chiarimento prevalse ed ora è dogma. Così fu
promulgata l’eternità, prima tollerata appena all’ombra di qualche
screditato testo platonico”.
Ireneo concepisce e sancisce in
questo modo, per confutare una eresia che poteva rivelarsi esiziale per
la Chiesa paolina, un «atto senza tempo» che crea l’eternità. E dunque,
per il cristiano, il primo momento coincide con la creazione che a sua
volta non esiste se non nella volontà dell’Onnipotente di farla
esistere. Quindi l’eternità altro non può essere che uno degli attributi
divini. Le cose temporali, tra cui l’umanità, si distinguono allora da
quelle divine per il fatto che sono prive di potenzialità creativa.
Questo significa, in sostanza, che il tempo degli uomini non è
commensurabile a quello trinitario, che così resta imperscrutabile e
misterioso per definizione: non vi è partecipazione all’eternità se non
indirettamente attraverso l’atto di fede che essa esiste poiché creata
da Dio. Come scrisse riassumendo mirabilmente questa terribile distanza
tra tempo umano e tempo divino San Paolino: “Toto coruscat trinitas
mysterio”, cioè rifulge la Trinità in un totale mistero.
L’eternità teandrica di Florenskij
Ma
nonostante il predominio metafisico che la Chiesa cattolica ha
esercitato per secoli sull’eternità attraverso il dogma trinitario – un
vero e proprio trattato di «teratologia intellettuale» lo definisce
l’ineffabile Borges – nella Russia dei primi del Novecento, insieme al
movimento simbolista e, più profondamente ancora, dalle radici della
mistica ortodossa, nasce un autore che, senza in apparenza rinnegare,
anzi con una massimo di affermazione della sua fede religiosa, spinge
sulla barriera dogmatica e riapre le porte della patristica verso un
orizzonte che travalica l’angusta visione trinitaria per ridare
all’umanità, ma più in generale alla Creazione, un ruolo comprimario a
quello del Creatore. Questo personaggio è Pavel Florenskij, il Leonardo
russo: l’uomo che studierà il transfinito matematico per metterlo al
servizio della riconciliazione tra eternità e tempo.
Autore di
profondissima fede spirituale, Pavel Florenskij segue il ragionamento
neoplatonico andando ben oltre le proposte di Plotino e di
sant’Agostino. Egli esplora il tema del rapporto tra tempo ed eternità
riconducendolo a quello, analogo, tra l’uno ed il molteplice, tra finito
ed infinito. Per l’ingegnere-sacerdote ortodosso, responsabile per un
lungo periodo dei programmi di elettrificazione dell’Unione sovietica
staliniana, le forme sensibili, cioè la realtà in atto del Mondo, sono
le porte verso l’intelligibile assoluto, sono simboli che ci portano
alla contemplazione della profondità enigmatica del Mondo sino a
«scorgere l’unità del finito e dell’infinito», cioè del tempo con
l’eternità, l’unità integrale della conoscenza.
La visione di
Florenskij è di una originalità estrema, anche perché vissuta con
coerenza sino alle ultime conseguenze. Internato in un gulag per non
voler abbandonare la sua veste talare, sarà infine fucilato nel 1937 e
la sua opera scomparirà negli archivi del KGB sino agli anni Novanta del
secolo scorso. Nel freddo glaciale delle isole Solovki scrive ai figli:
“Che cosa ho fatto per tutta la vita? Ho contemplato il mondo come un
insieme, come un quadro e una realtà compatta, ma ad ogni tappa della
mia vita da un determinato punto di vista […]. Le sue angolature mutano,
l’una arricchendo l’altra”.
Il clima culturale in cui si sviluppa
la Weltanschauung integrale di Florenskij è sia quella del
cristianesimo ortodosso russo dunque, molto vicino alle radici
platoniche e altrettanto distante da quello romano, sia l’elaborazione
matematica di Cantor sui numeri transfiniti che introduce nuove
definizioni e mezzi di comprensione degli infiniti matematici. Qui, ai
primi del Novecento, in pieno clima rivoluzionario, troviamo pensatori
come Vladimir Solov’ëv padre di quel «realismo mistico» che poi padre
Florenskij elaborerà sino alla visionarietà, proponendo la fusione tra
tempo ed eternità attraverso il processo della «unitotalità»,
vsejedinstvo in russo.
Questa è allora la sua risposta alla
domanda su come vivere l’eternità nel tempo: la convinzione che non solo
l’umanità, ma tutti i fenomeni del Mondo, quelli animati e quelli
inanimati, quelli coscienti consapevolmente e quelli che ancora non lo
sono e, spingendosi molto oltre, tutto il Cosmo, siano chiamati a
partecipare ontologicamente al graduale processo di costruzione
dell’unità del tutto. In altre parole l’eternità non sarà in atto sinché
tutti i fenomeni da essa prodotti nel tempo non formeranno un organismo
universale, una «unitotalità» in cui ogni distinzione verrà annullata e
non esisteranno più né il tempo né l’eternità.
Questo organismo
cosmo-teandrico, come lo definisce Florenskij cioè alla coincidenza tra
il divino (teos) e l’umano (andros), è allora il punto di convergenza e
di sintesi tra le grandi intuizioni dell’idealismo tedesco di Schelling,
Fichte, dello stesso Hegel, e il pensiero di scrittori abissali quali
Dostoevskij e il movimento dei simbolisti russi.
«Dentro di noi
portiamo il transfinito, il sovrafinito, noi – il kosmos – non siamo
qualcosa di finito, di direttamente opposto alla Divinità: noi siamo
transfiniti, siamo in mezzo tra il tutto ed il nulla». Così l’autore si
esprime in merito alla sua intuizione della relazione tra l’eternità ed
il tempo, tra il finito e l’infinito, nel I simboli dell’infinito.
Anche
la sua concezione del microcosmo umano è coerente con la visione
teandrica del macrocosmo: «l’uomo è parte del mondo, ma allo stesso
tempo egli è complesso tanto quanto lo è il mondo. Il mondo è parte
dell’uomo, ma anche il mondo è complesso quanto lo è l’uomo». La
relazione tra creato e creatura, tra infinito e finito è tutta
riconducibile e questa «interrelazione sostanziale».
Il soma
dunque, il nostro fenomeno immerso nel tempo, si presenta agli occhi del
matematico russo come un vero e proprio simbolo dell’eternità
(soma-sema) dato che «il nostro corpo è infinitamente più profondo di
quanto lo ritenessero il materialismo e il positivismo da un lato, e lo
spiritualismo dall’altro. Alla sua base la fisiologia è assolutamente
mistica, è la base della religione di tutta l’umanità… il nostro corpo
esperisce misticamente il mondo intero».
E qui, con un balzo
difficilmente immaginabile senza la capacità visionaria di collegare
pensiero scientifico e misticismo, finito ed infinito, unità e
pluralità, Florenskij fa collassare su se stesso il dogma trinitario,
senza negarlo o rinnegarlo ma anzi portandolo a potenza, distillandone
l’essenziale unisostanzialità come infinito rispecchiamento tra tutte le
forme del cosmo.
«Il simbolo mi è sempre stato caro nella sua
immediatezza, nella sua concretezza, nella sua carne e la sua anima. In
ogni vena della sua carne io volevo vedere, cercavo di vedere, e credevo
di poter vedere l’anima, la sola sostanza spirituale. Il positivismo mi
disgustava, ma non meno la metafisica astratta. Io volevo vedere
l’anima, ma volevo vederla incarnata».
Da questa tensione insonne,
indomita, da questo intento visionario che travalica l’antinomia tra
verità dogmatica e intuizione simbolica, nasce l’idea della homoousìa
cioè dell’unisostanzialità trinitaria come vera e propria provocazione
del pensiero, un avvicinamento totale tra significato e significante,
tra corpo e anima, tra eternità e tempo.
Come fa notare Natalino
Valentini nella sua bella introduzione al volume Il simbolo e la forma
sui saggi scientifici dello scienziato russo: “Nel simbolo Florenskij
coglie quel tipo di incarnato di realtà fisico–spirituale in cui è
espressa direttamente l’antinomicità dell’essere, l’unità e la non
riconducibilità di fenomeno e noumeno, di visibile ed invisibile,
razionale e mistico”
Al proposito, chiosa il filosofo Choruzij,
tra i commentatori più acuti di Florenskij, «l’Essere-Cosmo si struttura
integrandosi».
E dunque, in conclusione, l’essere nel tempo
struttura il tempo dell’essere, il tempo l’eternità, l’eternità il
tempo, la vita particolare quella universale, la vita del cosmo quella
delle sue parti, in una ricerca di totalità che alla fine cancellerà
ogni distanza. Come esclama Jack Kerouac in Satori a Parigi: «Quando dio
dirà: Ho vissuto!, dimenticheremo tutte queste storie di separazione».