il manifesto 24.5.16
Se si sveglia l’America dormiente
Primarie
Usa. I sondaggi danno Trump in vantaggio su Clinton. Ma il "fenomeno
Trump" potrebbe essere sottostimato, perché sia l'America profonda sia
quella più ricca potrebbe votare il miliardario alla Casa bianca
vergognandosi di dirlo nelle rilevazioni
di Guido Moltedo
«In
quanti sostengono Trump ma non vogliono ammetterlo?». L’interrogativo
di Thomas Edsall, sul New York Times di qualche giorno fa, è perfino più
inquietante per Hillary Clinton dei sondaggi ultimi, che danno Trump in
parità e perfino in vantaggio rispetto alla rivale democratica.
Già,
perché se i numeri in questa fase della corsa non vanno presi troppo
sul serio, è anche vero che i dati pubblicati potrebbero essere perfino
inferiori a quelli reali, e di parecchio.
Gran parte dei
rilevamenti, infatti, si svolge telefonicamente, e sembra che molti
intervistati, specie dei settori demografici più istruiti e benestanti,
si vergognino di dichiarare il loro sostegno al magnate di New York.
La
controprova è che risultati molto migliori per Trump, negli stessi
bacini elettorali, sono riscontrati nei sondaggi online, dove non c’è la
relazione persona a persona, e il voto dato via computer o smartphone
somiglia alla scheda nel segreto dell’urna. Questa disparità è stata
osservata da tempo. Nel caso di Trump sembra che il fenomeno sia molto
vistoso.
Significa che blocchi consistenti di elettorato ancora
«nascosto» potrebbero emergere nel voto di novembre e fare la differenza
a favore di Trump. Sono pezzi di elettorato diversi dalla platea a cui
si è rivolto il repubblicano agli inizi della sua corsa, l’America
bianca delle aree urbane e deindustrializzate e degli stati impoveriti,
su cui ha fatto presa il suo messaggio xenofobo, razzista e
iperprotezionista.
Nelle primarie nel Connecticut si è visto che
proprio nei sobborghi più agiati dello stato che gravitano intorno a New
York Trump è andato particolarmente bene. Sono zone residenziali
tipicamente legate alla tradizione repubblicana moderata, che in teoria
dovrebbe considerare con un certo ribrezzo un rozzo come Trump. Eppure
l’hanno votato, preferendolo al repubblicano vecchio stile John Kasich,
che s’aspettava, almeno lì, di mietere consensi.
Come osserva il
neocon Robert Kagan sul Washington Post «il fenomeno che ha creato e che
ora guida è diventato qualcosa di più grande di lui, e qualcosa di
molto più pericoloso». L’articolo di Kagan s’intitola: «Ecco come il
fascismo arriva in America».
Kagan è uno degli ideologi della
destra che con Bill Kristol hanno cercato di impedire l’ascesa di Trump
fino alla nomination, in tutti i modi, anche provando a mandare in pista
un terzo candidato indipendente.
Lo scontro tra questo gruppo,
legato ai Bush, e Trump è esploso fragorosamente. Il vecchio
establishment non ha digerito Trump ma tanto meno il movimento autonomo
dal Partito repubblicano e contro la dirigenza repubblicana che ne ha
spinto l’ascesa. I vecchi apparati e sodalizi di potere sentono di non
contare più niente, e a ragione. E loro che hanno sostenuto personaggi
come George W., Dick Cheney e le loro guerre ora parlano di fascismo in
arrivo in America. Se è così, e in effetti c’è da temerlo, sono loro che
l’hanno reso possibile, e ora strepitano.
Potrebbero questi
ambienti sostenere, senza dichiararlo, Hillary Clinton? È nella logica
del potere che avvenga. Ma un simile spostamento non farebbe che sancire
la fine definitiva del Partito repubblicano, già da tempo in crisi e
ora sbriciolato dallo «schiacciasassi» Trump.
Di converso questo
aiuto, seppur non dichiarato e ancora frutto di congetture, non fa che
consolidare l’immagine di una Clinton che piace ai poteri forti, la
Hillary immortalata mentre conversa con Kissinger o abbraccia Jeb Bush. E
certo non l’aiuta nel confronto con Sanders.
Che nell’immediato è
il problema principale degli strateghi clintoniani. Cioè la spinta
ancora vigorosa che lo sostiene e che in California dovrebbe tradursi in
una buona performance per Bernie.
Sono oltre 850.000 i nuovi
elettori che si sono registrati in 58 contee della California in vista
delle primarie del 7 giugno e in vista delle presidenziali di novembre.
Sono
cifre che fanno impallidire quelle delle primarie del 2008 e del 2012. E
sono numeri destinati a crescere di qui al fatidico martedì
californiano, l’ultima tornata elettorale della competizione e forse la
più importante nel campo democratico.
I neo elettori sono
prevalentemente giovani, con il 37 per cento sotto i 25 anni e il 64 per
cento sotto i 35. Molti degli elettori più anziani sono probabilmente
americani di fresca cittadinanza o persone che si sono trasferite in
California da altri stati.
Poco meno del 29 per cento di questi nuovi elettori sono ispanici, più del doppio della percentuale del 2012.
I
numeri californiani suggeriscono che i sondaggi di questi giorni vanno
presi più che mai con cautela, perché è davvero notevole il sommovimento
elettorale in corso, che non è possibile misurare.
Tuttavia
quanto accade in California, il fermento in vista del voto, sembra
disegnare un quadro favorevole a Sanders. E stando sempre ai numeri dei
sondaggi, Sanders è il favorito in un duello con Trump, più di quanto
non lo sia Clinton, sulla quale peraltro pesa il fardello di un rating
sfavorevole di quasi il sessanta per cento, dato negativo che peraltro
condivide con Trump (sono entrambi sgraditi alla maggioranza
dell’elettorato).
Così se dalla California dovesse arrivare un segnale forte a favore di Sanders, i democratici non potrebbero ignorarlo.