il manifesto 19.5.16
Rivoluzione culturale, un’utopia attuale
2016.
Sbaglia chi lamenta l’assenza di valori nella società di oggi, che in
realtà assume il profitto a valore dominante e universale - come Dio
indiscutibile e onnipotente. Non solo la conoscenza del pensiero
socialista è stata interdetta, ma si è disgregato lo stesso contesto dei
valori borghesi, di cui tutti si riempiono la bocca: democrazia,
tolleranza, libertà... come le «menzogne viventi» di cui scriveva Sartre
nel ’62
di Edoarda Masi
Sono passati
(cinquant’anni, ndr) anni dall’inizio della rivoluzione culturale in
Cina, o meglio, da quando il movimento sfuggì dalle mani della
burocrazia, dopo il dazebao della giovane Nie Yuanzi il 25 maggio 1966:
per breve tempo, giacché nel corso del 1968 (febbraio o dicembre,
secondo le varie interpretazioni) era virtualmente conclusa.
Esporre
nelle linee essenziali le vicende di quel movimento, i suoi contenuti, i
motivi della sua eccezionale importanza nella storia mondiale, le
ragioni della sua sconfitta e, ad un tempo, della sua attualità, risulta
impossibile.
Infatti il pubblico al quale ci si rivolge ha subìto
anni di lavaggio del cervello, più che mai intenso e distruttore
nell’ultimo decennio, a proposito non tanto o non solo delle questioni
cinesi, quanto della conoscenza e dell’interpretazione della storia
degli ultimi due secoli, delle origini e dello sviluppo del movimento
operaio internazionale, degli attacchi violenti e ininterrotti ai paesi
socialisti (che hanno contribuito a deformarne irrimediabilmente il
carattere); per non parlare dei contenuti del pensiero socialista nelle
sue diverse correnti (…)
Sbaglia chi lamenta l’assenza di valori
nella società di oggi, che in realtà assume il profitto a valore
dominante e universale – come Dio indiscutibile e onnipotente. Non solo
la conoscenza del pensiero socialista è stata interdetta, ma si è
disgregato lo stesso contesto dei valori borghesi, di cui tutti si
riempiono la bocca: democrazia, tolleranza, libertà… come le «menzogne
viventi» di cui scriveva Sartre nel ’62, lanciate dalle città d’Europa
in Africa, in Asia: «Partenone! Fraternità!», risuonano vuote oggi fino
nel centro delle metropoli. Hanno la stessa funzione dei «variopinti
legami» della società feudale di cui dice il Manifesto del partito
comunista. Li ha spazzati via, divorando la stessa borghesia, un padrone
anonimo come Dio indiscutibile e onnipotente, che chiamano «mercato»
per non usare il termine «capitale», che sarebbe più corretto.
Il
padrone anonimo domina oggi nel mondo, semina degrado dolore e
distruzione anche nei paesi che avevano cercato la via socialista; anche
in Cina, dopo che, con la morte di Zhou Enlai e di Mao Zedong, ebbero
fine le lunghe lotte con cui prima, durante e dopo la rivoluzione
culturale, si era tentato disperatamente di bloccarne l’ingresso. Si era
arrivati, da parte dei rivoluzionari cinesi, a riconoscere il dominio
effettivo del capitale anche nell’Unione sovietica staliniana e
brezneviana (le stesse conclusioni alle quali, per altra via, è giunto
Istvàn Mészàros); e ad attaccare quanti, nel Pcc, intendevano seguirne
la strada: quelli che oggi sono al potere. Come già da un pezzo e
ripetutamente è stato dimostrato, il degrado e la distruzione,
l’allargamento oltremisura della forbice che divide i ricchi dai poveri,
la stratificazione sociale sempre più rigida, la perdita di ogni reale
cittadinanza da parte dei poveri – la stragrande maggioranza – non sono
fenomeni marginali, difetti ai quali porre un rimedio, né residui di un
passato di «arretratezza» da superare, ma il risultato del meccanismo
universale in atto e la condizione stessa della sua esistenza.
Rapidamente
avanzano dalla periferia verso il cuore delle metropoli: chiunque non
sia del tutto cieco ne fa esperienza quotidiana. Più si aggrava
l’infelicità della vita senza scopo, del lavoro idiota, del lavoro con
pericolo di morte e del non lavoro, dell’assenza di umanità, della
solidarietà ridotta a beneficenza, anche nelle felici metropoli, dove il
nemico da combattere ha perduto anche i connotati culturali positivi
della borghesia, più diventa indispensabile per quest’ultimo che la
massa degli infelici sia accecata: che sia cancellata la nozione stessa
di un’alternativa possibile, e la storia di quelli che per essa sono
morti, a milioni nel corso di due secoli. (…)
Come raccontare
allora che i giovani cinesi in rivolta già in quegli anni lontani
avevano sollevato questi problemi, tentato di fare un passo oltre, verso
una dimensione comunista dei rapporti umani (economici e sociali); che
avevano posto con grande libertà le questioni del rapporto fra dirigenti
e diretti, fra partito e popolo, fra stato e individuo; fra colti e
incolti; fra le esigenze della produzione e quelle del benessere
immediato di chi lavora. Nelle grandi città industriali e nei loro
hinterland sperimentando forme audaci di organizzazione «orizzontale»,
di gestione decentrata del territorio, di imprese miste
agricolo-industriali; in alcune comuni, realizzando forme inedite di
gestione «dal basso». (…) Tutta ideologia, ti diranno gli apologeti del
presente, i cinici ideologi del «mercato». La sola cosa possibile,
allora, è di consigliare a qualche volenteroso di ricercare i vecchi
documenti , ricominciare a studiarli: anche per vedere se alla fine non
possano essere di qualche utilità qui e ora.
(Articolo pubblicato sul manifesto il 25 maggio 2005)