giovedì 19 maggio 2016

il manifesto 19.5.16
L’ultima rivoluzione
1966. L’esperienza che satura la forma stato- partito
di Alain Badiou

Perché discutere la rivoluzione culturale? Le ragioni sono tre: è stata un riferimento costante e vivace dell’attività militante in tutto il mondo. È il tipico esempio di un’esperienza politica che satura la forma del partito-stato. È una grande lezione nella storia e nella politica. (…) La versione storiografica dominante è stata redatta da vari specialisti, specialmente da sinologi, già dal 1968 e non è più cambiata.
Si è consolidata perché, nascostamente, è diventata la versione ufficiale di uno stato dominato dopo il 1976 da persone che rifuggivano dalla rivoluzione culturale e cercavano una rivalsa, ed erano capitanate da Deng Xiaoping.
La disputa è altrettanto chiara quando si prendono in considerazione le date.
Il punto di vista dominante, che è anche quello dello stato cinese, è che la rivoluzione culturale sia durata dieci anni, dal 1966 al 1976: dalle Guardie rosse alla morte di Mao.
Dieci anni di problemi, dieci anni persi per uno sviluppo razionale. In realtà questa datazione può essere difesa, se si ragiona strettamente dal punto di vista della storia dello stato cinese, con i seguenti criteri: stabilità sociale, produzione, una certa unità del vertice amministrativo, coesione dell’esercito ecc.
Ma questo non è il mio assioma e questi non sono i miei criteri. Se esaminiamo la questione delle date dal punto di vista della politica, i criteri principali diventano i seguenti: quando possiamo dire che c’è una situazione di creazione collettiva di pensiero politico?
Quando la pratica con le sue direttive sovrasta in modo verificabilmente eccedente la tradizione e la funzione del partito-stato cinese? Quando emergono affermazioni di valore universale? Allora procediamo in modo completamente diverso per determinare i confini del processo denominato «grande rivoluzione culturale del proletariato». Per quanto mi riguarda propongo di dire che la rivoluzione culturale, in questa concezione, costituisce una sequenza che va dal novembre 1965 al luglio 1968.
Posso anche accettare, questa è una discussione di tecnica politica) una riduzione drastica, che situerebbe il momento rivoluzionario propriamente detto tra il maggio 1966 e il settembre 1967. Il criterio è l’esistenza di un’attività politica delle masse, con i suoi slogan, le sue nuove organizzazioni, i suoi luoghi.
Attraverso tutto questo, si costituisce un riferimento ambivalente ma innegabile per tutto il pensiero politico contemporaneo degno di questo nome.
In tal senso c’è la «rivoluzione» perché ci sono le Guardie rosse, i lavoratori ribelli rivoluzionari, ci sono innumerevoli organizzazioni e «quartier generali» situazioni totalmente imprevedibili, nuove affermazioni politiche, testi inediti. (…)
Comunque il nostro debito verso la rivoluzione culturale resta enorme.
Perché il nostro maoismo, legato a questa grandiosa e coraggiosa saturazione del tema del partito, in quanto contemporaneo di quella che oggi appare chiaramente come l’ultima rivoluzione ancora legata al tema delle classi e della lotta di classe, sarà stato l’esperienza e il nome di una transizione capitale.
E senza questa transizione, o laddove nessuno è fedele a essa, non vi è nulla.