il manifesto 19.5.16
L’oblio funzionale al socialismo con «caratteristiche cinesi»
Memoria.
La mancanza di una «memoria collettiva» sui fatti insieme alla
collocazione temporale degli eventi nel «decennio perduto» è funzionale
all’attuale sviluppo economico del paese
di Simone Pieranni
Oblio,
irripetibilità, memoria condivisa ma probabilmente non «collettiva»,
rigurgiti che si incastrano in vite successive, dolore, rabbia,
incomprensioni, lotte, scontri, baluardi, ferite, vittime, morti, tanti:
i modi per definire il mondo che ruota intorno alla memoria della
rivoluzione culturale sono molti, eppure la Cina ancora non ha
contribuito a creare quel meccanismo di «memoria collettiva» necessaria a
far sì che l’evento possa essere compreso e scartato da future
soluzioni storiche.
Questo è accaduto perché il Partito ha messo
una pietra sopra agli eventi, chiedendo di non tornarci, e tuffando in
avanti un’intera popolazione: c’era da produrre, c’era da creare la
«Nuova Cina». E oggi c’è da consumare, comprare, sviluppare,
dimenticare, andare avanti, non importa come. L’importante è che il
Partito sia centrale, che il caos non si ripeta.
La Cina avanza.
Il «sogno cinese» non ha bisogno di ricordi. Nel documento «Risoluzione
su alcune questioni della storia del nostro Partito, dalla fondazione
della Repubblica popolare cinese», approvato nella sessione plenaria
dell’undicesimo Comitato Centrale del Pcc il 27 giugno 1981, viene
indicata la via per interpretare da lì ad oggi quegli eventi raccolti
intorno al nome di «Grande Rivoluzione Culturale Proletaria».
Si
tratta di una interpretazione che diventerà contemporaneamente «memoria
collettiva» e informazione storica. La sentenza del Partito comunista
sancisce alcuni concetti chiave: in primo luogo quella che chiamiamo
rivoluzione culturale è catalogata come «decennio perduto»: il Partito
ha deciso che la durata del fenomeno arriva fino al 1976 (e vedremo
perché la scelta temporale diventerà una forte presa di posizione
nell’interpretazione dei fatti); in secondo luogo la rivoluzione
culturale fu voluta da Mao.
Con una «scusante»: dato che Mao
all’epoca era già anziano, nel documento si lascia intendere che il
vecchio leader non sapesse più distinguere tra amici e nemici; infine,
la rivoluzione culturale fu un errore e un periodo di caos da non
ripetersi mai più.
Quello che ci interessa è la valutazione sulla
rivoluzione culturale. Associare i due periodi, quello tra il 1966 e il
1969, e quello che seguì (e che arriva fino al 1976, alla morte di Mao e
alla successiva eliminazione della «banda dei quattro» e il ritorno al
potere di Deng) significa sovrapporre due momenti storici ben diversi.
Chi interpreta infatti la rivoluzione culturale come l’estremo tentativo
di salvare il partito – e il paese – dalla burocrazia che avrebbe poi
sostenuto il processo capitalistico (oltre a ripristinare Mao al centro
della scena politica del Partito), la fa ricadere in un periodo ben
preciso: dal 1966 (in particolare dal maggio 1966) fino a quando Lin
Biao nel 1969 sancisce la fine della rivoluzione culturale. Anche
perché, come osservano alcuni storici, anche dopo il 1976, perfino nel
1983, si trovano ancora tracce di processi a ex Guardie Rosse.
Ma
in atto è un altro processo. Il documento del 1981 ha finito per sancire
una lettura imposta, che ha influenzato tutta la produzione successiva,
dalla «letteratura delle cicatrici» fino ad arrivare all’ampia gamma di
interpretazioni che oggi è presente sul web, nonostante l’argomento sia
tra quelli «censurati» dai solerti funzionari del partito. Si parla
molto spesso – al riguardo – di una rimozione di quanto accaduto: non è
esattamente così. Esiste una letteratura storica nella quale si
mischiano le vittime, i tormenti e le ingiustizie, compresi i milioni di
giovani mandati in campagna, dove per altro i contadini neanche li
volevano.
Non manca la memoria, ma una riflessione collettiva,
guidata dalla politica e dagli intellettuali, capace di far riflettere
sui fatti del passato, come accaduto in Germania per il nazismo. L’oblio
cinese, se così vogliamo dunque definirlo, sembra funzionale
all’odierno sviluppo capitalistico cinese, dominato dalla centralità del
Partito comunista. In un libro dal titolo Landscape of the chinese
soul, the enduring presence of the cultural revolution, (Karnac, 2014),
le interviste a diverse generazioni di cinesi e la loro rappresentazione
di quegli eventi, conferma proprio questo.
La posizione ufficiale
del partito ha finito per segnare ogni interpretazione al riguardo,
depotenziando la memoria di tutti gli elementi che potrebbero permettere
un «superamento» di quel periodo. L’interpretazione diventa univoca e
rappresenta un oblio, anziché una riflessione cosciente.
Significa annullare il passato, come se mettendolo da parte, potesse scomparire.
Come
scrivono gli autori del volume, esperti di psicologia sociale sinologi,
che esaminano l’oblio degli eventi storici e il loro impatto sulle
generazioni successive, «il documento del 1981 era un tentativo non solo
di legittimare la nuova leadership, ma anche di porre un termine ai
conflitti interni del paese. La spiegazione dei “dieci anni caotici”
come un conflitto tra élite interne e le masse era così convincente che è
stato perpetrato nella storia popolare, nella letteratura e nei lavori
autobiografici. L’immagine era convincente anche per l’Occidente, perché
apparve fin da subito disponibile a confermare l’assunto del fallimento
del socialismo e l’approccio orientalista nel considerare un Oriente
irrimediabilmente dispotico».