il manifesto 18.5.16
Conti pubblici, dall’Ue un regalo caro per l’Italia
Crisi
strutturale in Europa. E' arrivata la tanto attesa lettera della
Commissione Ue al governo sui conti pubblici: si promettono 14 miliardi
di flessibilità in cambio di impegni precisi sugli obiettivi di finanza
pubblica nel 2017. Nel frattempo la zona euro si dimena tra deflazione e
calo della produzione. Aumenta la distanza tra centro e periferia. Solo
in Germania c’è la ripresa
di Luigi Pandolfi
Tempo
di pagelle e di previsioni, per l’Italia e per l’Europa. Per il nostro
Paese, in particolare, l’Istat certifica che la ricchezza nazionale, a
marzo, è cresciuta soltanto dello 0,3% rispetto al trimestre precedente
(+1,0% rispetto al primo trimestre del 2015), mentre l’indice nazionale
dei prezzi al consumo è sceso dello 0,1% su base mensile (-0,5% su base
annua), confermando come la tendenza deflattiva sia ben lungi
dall’arrestarsi, nonostante la politica monetaria espansiva della Bce.
Come
se non bastasse, l’Istituto di statistica rileva anche che, su base
congiunturale, la produzione industriale rimane ferma al palo, con
arretramenti nei settori dei beni strumentali (-1,6%), dei beni
intermedi (-1,2%) e dei beni di consumo (-0,7%). Intanto, è arrivata la
tanto attesa lettera della Commissione al governo sui conti pubblici,
nella quale si promettono 14 miliardi di flessibilità, in cambio però di
impegni precisi, inderogabili, sul rispetto degli obiettivi di finanza
pubblica già a partire dall’anno prossimo (rapporto deficit/Pil
all’1,8%, pareggio di bilancio entro il 2018). Come a dire: l’uovo di
oggi lo pagherete col digiuno domani. Ma è questo ciò che serve oggi
all’Italia e all’Europa?
Nelle letture più attendibili sulla crisi
in Europa, il rapporto squilibrato tra centro e periferia ha avuto
sempre un peso rilevante. È ormai assodato, d’altronde, che alla radice
dei problemi di alcuni paesi periferici, a cominciare dalla Grecia, ci
sia stata una dinamica fatale tra indebitamento e consumi. Capitali che
dal centro sono defluiti verso la periferia per sostenerne la domanda
interna, alimentando una gigantesca macchina del debito, soprattutto
privato. Una storia di surplus da un lato, di deficit dall’altro. Basta
ricordare che paesi come la Spagna, la Grecia, il Portogallo e l’Irlanda
sono arrivati ad accumulare un debito con l’estero superiore anche al
90% del proprio Prodotto interno lordo. Poi, quando la bolla è
scoppiata, il rubinetto del credito è stato chiuso, ma i debiti sono
rimasti. E una parte di questi, da privati sono diventati pubblici,
debito pubblico.
Nel frattempo, crisi e austerità hanno continuato
a fare il loro corso, producendo, tra le altre cose, anche un maggiore
equilibrio delle bilance dei pagamenti in ambito europeo. Perfino la
Grecia, nel 2013 ha fatto registrare un surplus nella bilancia delle
partite correnti, il primo dal 1948, da quando cioè la Banca di Grecia
ha iniziato ad annotare questi dati. Cos’è successo? Forse che tutti i
paesi della zona euro sono diventati d’un tratto locomotive dell’export?
Nient’affatto. Al netto di qualche discreta performance che ha
riguardato recentemente alcuni paesi, tra cui l’Italia e la Spagna, le
locomotive sono rimaste locomotive, mentre tutti gli altri hanno
semplicemente stretto la cinghia.
Così, mentre un paese come la
Germania – grazie anche alla conquista di quote importanti del mercato
asiatico – continua a brillare per i propri attivi commerciali che
superano abbondantemente i 200 miliardi di euro annui, i paesi
periferici continuano a far discutere per il crollo che il reddito
pro-capite dei loro cittadini ha subìto dall’inizio della crisi. Si va
dal -25% dei greci – seguiti dagli italiani con un drammatico -12% – al
calo del 5,8% di quello portoghese. Meno soldi in tasca, meno consumi,
meno import. In pratica, i paesi Piigs hanno riequilibrato i propri
conti con l’estero scaricandone i costi sui cittadini, senza scalfire i
rapporti di forza commerciali in ambito europeo. Un dato su tutti: il
surplus delle partite correnti della Germania ha raggiunto nel 2015
l’8,5% del Prodotto lordo, 257 miliardi di euro, a dispetto dei limiti
imposti dalle regole europee ai paesi membri, sia per i surplus che per i
deficit eccessivi.
Tornando all’ultima nota dell’Istat, i dati
del primo trimestre di quest’anno relativi alla bilancia commerciale
italiana sono molto eloquenti a tal riguardo. A marzo, rispetto al mese
precedente, le importazioni del nostro Paese hanno subìto un
arretramento pari al 2% (-0,3% anche per le esportazioni), che, su base
annua, significa un crollo dell’11% (-5,2% per l’export). Un indicatore
che chiama in causa la domanda ancora troppo bassa, insieme ai numeri
tuttora da brivido sulla disoccupazione, nonostante le riforme del
mercato del lavoro, alle quali è legata una fetta della flessibilità
concessa da Bruxelles.
Nel complesso, la zona euro si dimena tra
deflazione, stagnazione e calo della produzione industriale, segno che
la crisi ha ormai carattere strutturale. Eppure, tra le pieghe dei
numeri che circolano in questi giorni relativamente agli indicatori
macroeconomici dei vari paesi, si può cogliere qualche segnale in
controtendenza. Ancora in Germania, dove si registra una ripresa più
apprezzabile della domanda interna, nonostante le politiche di
moderazione salariale di questi anni. Facile: con una disoccupazione ai
minimi dagli anni novanta, il reddito disponibile è, complessivamente,
maggiore che in qualsiasi altro paese europeo. Non solo. Proprio il
regime di (quasi) piena occupazione sta favorendo una ripresa della
dinamica salariale, che, com’è prevedibile, farà sentire i suoi effetti
sui consumi, quindi sull’inflazione.
Lo scorso 13 maggio, il
sindacato dei metalmeccanici Ig Metall e i datori di lavoro hanno
raggiunto un accordo in Nord Reno-Westfalia che prevede un aumento del
4,8% in due anni dei salari del settore, insieme ad un versamento una
tantum di 150 euro. Si tratta di un accordo pilota, da estendere a tutto
il paese, che coinvolgerà a regime circa 4 milioni di lavoratori. Dopo
anni di svalutazione interna, un piccolo dividendo per i lavoratori,
insomma. Ma anche un esempio di come gli squilibri economici siano la
regola di questa Europa, a dispetto degli equilibri formali delle
bilance commerciali. Chi fa finta di non accorgersene, proprio in queste
ore, è il presidente della Bundesbank Jens Weidmann, che, senza pudore,
richiama il nostro Paese ai suoi doveri, ammonendo che «col debito non
si fa crescita». Quale debito, di grazia?