il manifesto 17.5.16
Un pensiero vitale messo fuorigioco
Tempi
presenti. Con il saggio «Da fuori» (Einaudi) Roberto Esposito vede
nell’esilio prima e nel ritorno in Europa il passaggio necessario per
superare la secolare crisi della filosofia. Da qui l’analisi delle
«svolte» tedesca, «linguistica», francese e dell’«italian theory»,
quest’ultima rappresentata con rassicuranti e impolitiche tonalità
naturalistiche
di Toni Negri
È un libro
complesso, che si vuole una summa del pensiero europeo a partire dalla
sua crisi novecentesca. L’ipotesi di Roberto Esposito (Da fuori,
Einaudi, pp. 256, euro 22) è che, per uscire dal «declino», il pensiero
filosofico europeo abbia dovuto scegliere un «esodo», abitare un
«esilio» e da quel «fuori» ritornare, capace di produrre una nuova
proposta di rinnovamento civile sul terreno globale.
La crisi:
Esposito la insegue dalla fine dell’Ottocento, ricostruendo quel
«nihilismo passivo» che ha caratterizzato, fra Valéry, Husserl e
Heidegger, l’aprirsi del sentire filosofico contemporaneo – un sapere
sul «declino» che ha avuto una narrazione efficace nel rapporto
stabilito da Theodore W. Adorno tra nemesi dell’Illuminismo, crisi della
Ragione e l’affermazione egemone di una dialettica del negativo, di una
dialettica senza soluzione. O, peggio, nel pensiero politico, una
percezione della crisi che da Max Weber, passando per Ernst Jünger e
Carl Schmitt, si perde nella disperata assunzione di un’impossibile
rifondazione. Di contro l’America.
Un’America che a fronte della
crisi europea – crisi che è ossessione di una perdita di «origine» –
afferma, ad esempio con Hannah Arendt, la solidità della propria
fondazione: origine e contemporaneità qui si sovrappongono. «Solo il
passaggio per il “fuori” poteva restituire una sorta di egemonia a
quella filosofia europea incapace ormai di ritrovarla nella propria
origine greca»: così scrive Esposito. Attenzione, tuttavia: la nostalgia
dell’origine ha spesso come risvolto il desiderio della supremazia.
Comunque, secondo Esposito, quella vicenda si è realizzata: a partire
dall’esodo degli intellettuali tedeschi dopo il ‘33, il passaggio
attraverso il «fuori» americano, si è generalizzato; è negli Usa che il
pensiero europeo si rinnova, è da quel «fuori» che si propone un vero e
proprio salto di paradigma del pensiero europeo.
In cerca di rigenerazione
Il
libro di Esposito sviluppa in quattro capitoli la sua ricerca di una
nuova filosofia della e per l’Europa di cui abbiamo già colto la
condizione: uscire dalla crisi del riconoscimento dell’«origine», dal
nihilismo passivo nel quale la crisi era stata vissuta. Ed è attraverso
il «fuori» (non semplicemente l’emigrazione verso l’America degli anni
Trenta ma la circolazione transatlantica del pensiero) che potrà darsi
un processo ricostruttivo. German philosophy, ovvero la ripresa di una
radicale critica filosofica che riempie il proprio procedere di
contenuti sociologici e di un’eccezionale capacità critica della realtà
contemporanea.
Un lavoro di riterritorializzazione che rifiuta,
con Adorno, «di confondere la questione del “fuori” con quella del
“fine”»; e trasforma dunque radicalmente la filosofia continentale,
strappandola ad ogni esito metafisico. French theory: un pensiero che
esalta la differenza e interpreta in maniera completamente originale il
linguistic turn, facendo della «critica della parola» l’ambito di una
pratica di scrittura priva di intenti normativi. (Notiamo tuttavia che
qui il discorso si restringe su Jacques Derrida. Ben diverso è
l’andamento del pensiero foucaultiano: critica dell’«ordine del
discorso», e promozione della «presa di parola»).
In entrambi i
casi, tedesco e francese, il pensiero va oltre l’affermazione e la
negazione dialettiche, è un «anti-Hegel» ma nel contempo mira a
«neutralizzare» quel conflitto insolubile dal quale ci si era mossi, ad
anestetizzare la crisi. Un’immanenza senza pieghe. E poi l’Italian
thought: è «pensiero affermativo» che avendo attraversato l’immediatezza
del politico e la durezza della crisi, sviluppa un pensiero
costitutivo, oltre la teologia politica, un’istanza biopolitica
radicale.
Difficile sarebbe qui dare una chiave di lettura di
questo libro che andasse oltre quanto accennato, oppure ripercorrerlo
criticamente individuandone forza o aporie. Ci permettiamo di
attraversarlo, di stabilire anche noi un «fuori», notando come questo
lavoro sia attraversato da due paradossi e, forse, da un’illusione.
L’asse transatlantico
Il
primo paradosso è implicito nel cammino stesso che Esposito ci propone.
Quell’andare «fuori» per rientrare e, nel rientro, riscoprire un
orizzonte di valori «affermativi». Ed è nell’italico «pensiero vivente»
che questo esito si trova. È un piacere sentirselo dire! Se non che la
via che va da Machiavelli a Spinoza, dai repubblicani veneziani a
Harrington è senz’altro percorribile – difficile invece cogliere una
strada di ritorno, per esempio da Jefferson a Gramsci, che non sia
quella che passa dal piano Marshall. È vero però, senza più scherzare,
che nel sapere filosofico l’egemonia si gioca su un asse transatlantico.
Su di esso hanno ondeggiato german philosophy e french theory, ma
questo «ondeggiare» che comincia (hegelianamente) a diventare un
«dentro» l’Europa, è troppo vago. Esso trama «contro» la modernità un
disegno post – e contro la dialettica un progetto decisamente
anti-hegeliano – ma diventa più credibile quando lo si qualifica come un
italico «indomabile pensiero vitale»?
Più facile da definire è un
certo oscuro pensiero italiano (fra Tilgher, Rensi e forse anche Colli)
che addobba questa forza piuttosto di essere capace di esprimerne la
potenza produttiva. E poi – ben conoscendo il pensiero di Esposito –
quel vitalismo non assomiglia invece che a una lontana e profonda
origine italiana, a quello che fu proprio di Bataille nella crisi
europea dei Trenta? Qui Machiavelli rischia di esser preso come una
sorgente e non come un potere, una potenza senza conflitto.
Il
primo paradosso consiste dunque nel voler placare quella crisi che aveva
cercato salvezza in un drammatico esodo; che in Germania s’era risolta
nell’ostracismo della speranza; che in Francia si era perduta in un
labirinto di differenze: di placarla su un orizzonte vitalista che non
va oltre la proclamazione retorica della vitalità.
Messa giù in
questo senso la carta dell’italian thought è davvero debole. Esposito lo
sa. Eccolo dunque ricorrere a un secondo paradosso. Alla figura
biopolitica che, posta come irriducibile forza vitale, non riesce a
mordere il reale, vuol dare forza ontologica, attribuendole una
qualificazione naturalista. L’implicazione diretta di politica e vita si
scopre come implicazione di vita e natura. Il biological turn (che
caratterizzerebbe una nuova dimensione globale del pensiero filosofico
dopo il linguistic turn) gli permette di ripulire la scena di ogni
esperimento filosofico esterno o antecedente la qualificazione
naturalista del bios. La french theory e alcune correnti dell’italian
thought vengono così sospinte a lato: son quelle che non sono riuscite a
liberare la biopolitica dalla tentazione tanatopolitica (Mario Tronti,
Massimo Cacciari) o a trasformare la biopolitica in biologia (Giorgio
Agamben). Ma l’operazione è anche inclusiva. Vi sono pagine nelle quali
Esposito, confrontandosi con gli autori della french theory, li vuole
assolutamente con sé.
La forma dei concetti
Così Esposito
introduce l’operazione: «basti confrontare gli ultimi tre testi di
Foucault, Deleuze e Derrida. Pubblicati a dieci anni di distanza l’uno
dall’altro, essi convergono sul tema della vita, a testimonianza del
biological turn ormai al centro del pensiero contemporaneo, sia
continentale che analitico, lungo un tragitto che va dalla biopolitica
alle neuroscienze». Così Esposito ci ricorda una delle ultime
considerazioni di Foucault: «dar forma a dei concetti è un modo di
vivere e non di uccidere la vita; è un modo di vivere in una relativa
mobilità e non un tentativo di immobilizzare la vita». Di Deleuze quello
straordinario scritto L’immanence: une vie: «diciamo che la pura
immanenza è UNA VITA e nient’altro. Non è l’immanenza alla vita ma
l’immanenza che non è in niente, è una vita». Di Derrida: «la morte è
originaria: la vita è sopravvivenza. Sopravvivere in senso corrente
significa continuare a vivere, ma anche vivere dopo la morte». Ma questi
tre brani che dovrebbero introdurci alla natura e alle neuroscienze,
non sono in realtà che tre feroci affermazioni, per Foucault, contro
ogni tentativo di rendere immobile la vita (tanto più di
naturalizzarla), in Deleuze un’affermazione di singolarità contro
l’universale della morte – e in Derrida non è quella domanda di
sopravvivenza una ribellione contro ogni heideggeriana anticipazione
della morte? In questi casi il biological turn è meglio lasciarlo alla
fisica biologica.
Una nuova speranza
Il paradosso di
Esposito lo si vede qui bene: per dar contenuto alla «forza vitale» deve
toglierla alla vita, alla libertà, alla politica e ridurla alla natura.
Per
finire. Esposito non cede a queste difficoltà. C’è ancora un progetto
da perseguire. Nel ritorno dal «fuori» è incarnata l’idea, meglio, la
speranza di Europa. Per la german philosophy la modernità europea è un
«progetto incompiuto», per la french theory l’Europa è «esausta» –
nell’italian thought la speranza è riaccesa. Perché quell’idea di Europa
che nel modello di Jürgen Habermas doveva fondarsi sull’invenzione di
un nuovo «patriottismo costituente» (e non ci è riuscita), che nel
modello di Derrida pretendeva di esportare la crisi, e di dare così
forza critica all’idea di Europa nel decentrarla per farla rinascere (e
in parte, negli studi postcoloniali, vi è riuscito) – bene, all’italian
thought è affidato il nucleo affermativo e costituente del progetto
europeo. Reinventare la nostra civiltà nel rispetto della vita comune.
Un’illusione?