martedì 17 maggio 2016

Corriere 17.5.16
Troppe ombre su Otranto
I turchi straziarono la città nel 1480 approfittando delle liti tra i cristiani
di Paolo Mieli

Il 14 agosto del 1480, a Otranto, gli uccisi dai turchi furono più di ottocento. Le loro ossa vennero recuperate l’anno seguente allorché la città pugliese fu riconquistata dagli aragonesi e conservate, ben visibili, nella cattedrale. In tempi relativamente recenti quei «martiri» hanno ispirato uno splendido romanzo di Maria Corti, L’ora di tutti (Bompiani), e uno straordinario film di Carmelo Bene, Nostra Signora dei Turchi (1968). Il loro esempio fu evocato in tutte le occasioni di scontro tra europei e musulmani: dalla battaglia di Lepanto (1571) all’assedio di Vienna (1683). Nel 1539, papa Paolo III (Alessandro Farnese), insidiato a un tempo, in Europa, dai luterani e, nel Mediterraneo, dagli ottomani di Solimano il Magnifico, inizierà il processo canonico per attribuire ai «decollati di Otranto» lo status di santi e autorizzarne il culto. Si dovranno però attendere due secoli e mezzo prima che, nel 1771, papa Clemente XIV li dichiari beati. E altrettanto tempo a che nel 2013 papa Francesco li canonizzi definitivamente. Ma, già dal 1668, il pontefice Clemente IX aveva concesso l’indulgenza plenaria per i devoti che avessero reso un «cristiano omaggio ai corpi martirizzati» di Otranto. E in quello stesso 1771 la Sacra congregazione dei riti, su sollecitazione di Ferdinando IV di Borbone, li aveva proclamati «servi di Dio, confessori della fede e martiri gloriosi di Gesù Cristo».
Perché allora c’è voluto oltre mezzo millennio per dichiararli santi? Per il fatto che quando, nel 1539, iniziò il processo canonico, furono interrogati una decina di otrantini sopravvissuti e, come puntualizza Vito Bianchi in Otranto 1480. Il sultano, la strage, la conquista , di imminente pubblicazione per i tipi di Laterza, venne fuori che «l’ecatombe, per ammissione pressoché unanime, era stata determinata dal rifiuto della cittadinanza di arrendersi e non dalla rinuncia all’abiura». Quanto al resto della vicenda, al termine di un’accurata indagine storica ci troviamo in presenza di quella che Bianchi definisce «una vittoria abortita, una ben misera storia di errori, sotterfugi, umiliazioni e pestilenza». Un tema, questo, già individuato dallo stesso Vito Bianchi assieme a Silvia Sanjuán Ledesma in Bari, la Puglia e l’Islam (Mario Adda editore), da Giancarlo Andenna in un saggio contenuto in Otranto nel Medioevo tra Bisanzio e l’Occidente (Congedo) e nel volume, curato da Hubert Houben, La conquista turca di Otranto tra storia e mito (Congedo).
Gli abitanti di Otranto furono vittima sì dei musulmani di Maometto II, soprannominato Fatih , il «conquistatore», dopo che nel 1453 si era impadronito di Costantinopoli. E dell’uomo, Gedik Ahmed Pascià detto «lo sdentato», che aveva guidato quell’esercito islamico dal porto albanese di Valona fino alla terra di Puglia. Ma gli otrantini non avevano nessuna intenzione di immolarsi per la fede e probabilmente il loro «martirio» va messo nel conto anche delle esitazioni di tutte le potenze italiche, veneziani e fiorentini in testa, che avrebbero dovuto andare a difenderli. Compreso il Papa. E se Otranto era poi tornata in mano agli aragonesi, lo si doveva non a una riconquista militare, bensì alla morte improvvisa del Fatih e alla guerra fratricida tra i suoi due figli, Bayezid e Cem, che li avrebbe distolti da ogni attenzione alla penisola italica.
Ma come si era giunti allo sbarco dei turchi sulla costa pugliese? Nei decenni precedenti, i pontefici si erano molto allarmati: negli appelli della Sede apostolica, nota Bianchi, «il sovrano turco era diventato prefigurazione dell’Anticristo, l’apocalittico dragone rosso che andava debellato con la forza della fede, del denaro e degli anatemi». Già a metà del Quattrocento erano state promesse indulgenze a chi, contro i turchi, si fosse «arruolato nel nome di Cristo». Erano state altresì reclamate le decime dai cristiani, minacciate scomuniche per coloro che avessero in qualunque maniera favorito gli «infedeli». Niccolò V (Papa dal 1447 al 1455) aveva nominato una commissione cardinalizia per discutere le modalità con cui fronteggiare il «mostro ottomano» e il 30 settembre 1453, a quattro mesi dalla presa di Costantinopoli, aveva emanato la bolla di crociata Etsi Ecclesia Christi ; Callisto III (1455-1458) — allarmato per le avanzate musulmane in Ungheria, Albania ed Egeo — aveva investito enormi quantità di denaro nella costruzione di una flotta papale, la quale aveva conseguito un’importante vittoria contro le navi turche al largo di Lesbo (1457).
Il senese Enea Silvio Piccolomini, ancor prima di diventare Papa con il nome di Pio II (1458-1464), proprio in relazione a tali accadimenti fu il primo a definire il concetto di «patria europea»: «Nel passato», scrisse, «siamo stati feriti in Asia e in Africa, cioè in Paesi stranieri. Ma, ora, siamo colpiti in Europa, nella nostra patria, nella nostra casa. Si obietterà che già un tempo i Turchi passarono dall’Asia in Grecia. I Mongoli stessi si stabilirono in Europa e i Saraceni occuparono una parte della Spagna dopo aver superato lo stretto di Gibilterra. Mai avevamo perduto però una città o un luogo paragonabile a Costantinopoli».
Per la prima volta, scrive Bianchi, il «neutro contenitore» europeo si era riempito di «un contenuto culturalmente qualificante e omogeneo». Ed «europei» erano stati espressamente considerati «tutti coloro che potevano raccogliersi sotto il nome cristiano». Una novità importante, se si pensa che ancora un secolo e mezzo prima Dante Alighieri nel De Monarchia aveva saputo benissimo definire gli asiatici e gli africani, ma aveva avuto qualche problema a identificare «quelli che abitano l’Europa». Adesso, nel Quattrocento, il riconoscimento di un’identità euro-cristiana «nasceva dal ridimensionamento delle aspirazioni universalistiche della Sede apostolica».
Il processo di «europeizzazione» della Chiesa romana derivava sostanzialmente «dal fallimento del progetto di ecumenismo coltivato dal papato e dalla consapevolezza che la dottrina di Cristo fosse ormai relegata ai margini dei territori asiatici e africani». L’espansione ottomana aveva ridotto gli spazi d’azione del cattolicesimo e «se nel Quattrocento poté elaborarsi una sincronia fra i concetti di Europa e di cristianità, il merito fu dell’avanzata turca, di quel nemico che aveva permesso di consolidare o dissotterrare radici comuni, di riferirsi o appigliarsi a percorsi identitari nascosti». Ma le divergenze e le rivalità — sia tra gli «europei» che, prima ancora, tra gli «italici» — erano talmente tante che non ne risultò affatto una qualche forma primordiale di unità del continente. Tanto più che a divergenze e rivalità si aggiunse l’insopprimibile istinto a «flirtare» tatticamente con Maometto II. Persino da parte di qualche pontefice (non certo Pio II che nel 1464 si mise addirittura alla guida di una spedizione armata contro i turchi che avrebbe dovuto muoversi dal porto di Ancona, se il Papa non fosse morto proprio alla vigilia della partenza). Nel 1470, poi, la caduta di Negroponte in mano turca fu uno shock.
Trascorsero dieci anni e i maomettani sbarcarono a Otranto. Adesso era papa Sisto IV (1471-1484), in rapporti assai tesi con Lorenzo il Magnifico che a sua volta aveva relazioni conflittuali con lo Stato senese, con Ferrante d’Aragona regnante sul Mezzogiorno e con il duca di Urbino Federico da Montefeltro. I quali, per di più, avevano tra loro legami inficiati da reciproci sospetti. Maometto II si era infilato in queste rivalità offrendo un aiuto a Firenze (nel mentre dispiegava una politica di buone relazioni con Venezia). Fu quasi una fortuna che, come scrisse Niccolò Machiavelli, «Iddio fece nascere un accidente insperato, il quale dette al re ed al Papa ed ai Veneziani maggiori pensieri che quelli di Toscana». Fortuna altresì che, proprio alla viglia dello sbarco di Otranto, Ferrante d’Aragona si fosse rappacificato (a dispetto di papa Sisto IV) con Lorenzo il Magnifico. Altrimenti, quando i turchi espugnarono la cittadella pugliese, un qualche intervento «straniero» in soccorso del re d’Aragona sarebbe stato addirittura impensabile. E invece fu possibile, anche se poco determinante agli effetti del respingimento dei turchi. I quali turchi sbarcarono a migliaia nell’estate del 1480 sulla costa pugliese, sotto la guida dello «sdentato».
Chiesero alla città di arrendersi, prospettando condizioni per l’epoca più che dignitose, ma ottennero come risposta un colpo di bombarda. Al che i musulmani reagirono con una carneficina tra le più crudeli. E non fecero nulla per nasconderla. Anzi: «l’enfasi sull’ecatombe» rispose, secondo Bianchi, a una «precisa strategia di deterrenza terroristica diretta a inibire psicologicamente le popolazioni delle località da aggredire nelle settimane seguenti».
A Napoli Ferrante d’Aragona pensò che fosse l’inizio della fine e richiamò il figlio Alfonso accampato nel Senese. A Roma — terrorizzata — si prese in considerazione un nuovo trasferimento del Papa ad Avignone. Stavolta i turchi sembravano avercela fatta e facevano arrivare da Valona la calce per fortificare le murature in vista di una controffensiva aragonese. Che non fu tale da consentire la riconquista di Otranto, ma diede a Lecce la forza per respingere l’assalto turco (le teste mozzate degli uomini del sultano, conficcate sulle lance, furono esposte tra canti e balli per le vie della città).
Qui Bianchi segnala un atteggiamento del Pontefice che, dopo lo spavento iniziale, divenne «profondamente equivoco». A Roma si diffondevano voci che minimizzavano la minaccia turca e i quattromila soldati promessi da Sisto IV a Ferrante non arrivarono mai (ma forse fu il re aragonese a preferire un sostegno consistente in ottomila ducati). In ogni caso fu evidente, scrive lo storico, che «da un lato il Papa predicava l’intesa universale e la sospensione di ogni contrasto in atto o in potenza; dall’altro persisteva nel risentimento personale e manteneva saldo il proposito di umiliare Lorenzo de’ Medici e magari anche di eliminarlo dallo scenario toscano».
F u così evidente che gli intrighi centro italici ebbero la prevalenza sull’«emergenza otrantina»: «la diffidenza fra signorie soverchiava inesorabilmente l’unità cristiana». Gedik Ahmed Pascià comprese che un’autentica controffensiva, ancorché fossero giunti in loco soldati inviati da Sisto IV, non ci sarebbe mai stata e propose a Maometto II un ambizioso piano che prevedeva uno sbarco a Napoli, in Sicilia e in Sardegna per poi espugnare l’intera penisola. Compresa Roma. Ma il «conquistatore», impensierito dalla nascente rivalità con il figlio Bayezid, esitò. E lo «sdentato», capita l’antifona, nel febbraio 1481 decise di tornare a presidiare la sua postazione di Valona. Con una giusta intuizione, dal momento che di lì a breve il sultano sarebbe passato a miglior vita e Ahmed Pascià avrebbe avuto, a fianco di Bayezid, un ruolo nella guerra di successione. Che però non gli risparmierà d’essere sospettato di complotto e non lo salverà dall’essere giustiziato.
A Otranto nel frattempo gli aragonesi erano riusciti ad aver ragione dei turchi grazie a una sorta di guerra batteriologica. La peste giocò un ruolo di primo piano allorché i napoletani presero a catapultare sugli islamici assediati carcasse di animali imputriditi, cadaveri infetti, escrementi umani. Nel giugno del 1481 furono introdotte in città quattro bellissime prostitute con «vestiti infetti di peste». E il morbo (assieme al mancato ritorno di Ahmed Pascià e alla notizia della morte del sultano) convinse i turchi a mollare la presa. Il re di Napoli avrebbe voluto inseguire i nemici in Albania, ma la milizia papale capitanata dal cardinal Campofregoso rifiutò di imbarcarsi.
Ferrante cercò ugualmente di trarre un qualche profitto politico dalla «vittoria»: già nelle feste di carnevale del 1482 la corte partenopea avrebbe messo in scena, a propria gloria, il «riscatto di Otranto» e il «sacrificio dei decollati». Nel Settecento, Ferdinando IV di Borbone valorizzerà le reliquie otrantine e accorderà alle spoglie il patrocinio regio. La Chiesa riscoprirà quei martiri nei tempi di cui si è detto all’inizio. Anche i laici Francesco Crispi e Giovanni Giolitti, nell’ora delle imprese coloniali italiane, si rifaranno a quel «luminoso precedente» storico. Un precedente di cui però, nel libro di Bianchi, si intravedono, assieme alle luci, le molteplici ombre.