Corriere 17.5.16
Siamo il Paese dei 100 mila tesori ma sappiamo proteggerli davvero?
di Roberta Scorranese
el
cuore di Roma, vicino a via del Corso, c’è una chiesa che dà le spalle
al centro. La facciata è sobria, ma se si apre il portone e si varca la
soglia, ecco che un cielo pieno di santi, gloria e colori precipita
sulle teste dei visitatori, con una potenza simile a una musica barocca.
È la «quadratura», virtuosismo pittorico che fratel Andrea Pozzo,
artista gesuita vissuto a metà ’600, realizzò nella chiesa di
Sant’Ignazio, fulcro del complesso romano della Compagnia di Gesù.
Con
padre Vitale Savio, rettore della chiesa, saliamo al piano superiore,
dove la finta cupola, altro capolavoro di trompe-l’œil , si può quasi
toccare. Ma qui l’illusione, così meticolosamente cercata da fratel
Pozzo, si spezza davanti a grandi macchie di muffa che affiorano dalle
cappelle, da lunghe crepe che attraversano le delicate volte laterali e
da un buco nel pavimento («Lo abbiamo ricoperto anche perché i
visitatori si portavano a casa un souvenir»): quello che, entrando,
pareva un paradiso in caduta, da vicino si rivela un bellissimo corpo
aggredito da una malattia. Non ancora grave, ma rischiosa.
E, alle
pareti, accanto agli affreschi, pulsano dei piccoli cuori neri, in
metallo: sono sensori (realizzati da Spin Italia, Lem e Step Over) del
progetto SMPPC-PRA che monitorano lo stato di salute della chiesa,
l’andamento delle crepe (si pensi solo che qui passano quasi tremila
persone al giorno) e il degrado delle pitture. Impercettibili segnali
che vengono inviati a un’applicazione, nella quale quella piccola
fenditura sul fondo della parete si ingrandisce e batte come un’arteria.
«Intendiamoci — dice padre Savio —: il Fec, Fondo edifici di culto del
Governo, si interessa allo stato della chiesa e si sta lavorando per
intervenire», però questo gioiello barocco è il simbolo di una
condizione che caratterizza migliaia di beni architettonici e artistici
in italia: la salute cagionevole.
Il sistema fortificatorio di
Palmanova, quella magnifica stella seicentesca a nove punte, in alcuni
tratti è invasa dalle sterpaglie e l’ultimo crollo, nella parte
superiore della controporta di porta Cividale, è del gennaio scorso (di
recente l’amministrazione locale ha promesso l’intervento dei forestali
d’inverno per la pulizia e la manutenzione). Oppure il Castello Svevo di
Augusta, nel Siracusano, fortezza federiciana del XIII secolo: a
febbraio, la Procura della Repubblica ha messo i sigilli al monumento,
poiché il rischio di cedimenti era troppo alto. Questa mappa dei beni a
rischio, che Italia Nostra ha composto con le indagini delle sue sezioni
locali, parla chiaro: bisogna agire subito.
La tutela (anche dei giardini)
Perché
la salvaguardia di un patrimonio come quello italiano, dove si trovano
33 «tesori» ogni 100 km quadrati (dati Istat del 2013) non è fatta solo
dai riflettori che si accendono quando a Pompei crolla una parete o
quando, periodicamente, avviene un furto clamoroso nei musei: «La cura —
ribadisce Marco Parini, presidente di Italia Nostra — è soprattutto la
prevenzione, la manutenzione regolare». È questo il momento giusto per
parlare di sicurezza di chiese, musei e aree archeologiche? Sembrerebbe
di sì. «Perché mai come adesso — dice Marco Magnifico, vice presidente
del Fai — abbiamo visto tanta attenzione ai tesori artistici, sia da
parte del ministero che dei cittadini». Infatti, se è vero che fa
notizia il miliardo (fondi Cipe) stanziato dal ministero dei Beni
culturali a monumenti che vanno dal Ducato Estense alla Grande Brera,
forse fa riflettere di più il dato che il Fai fornisce al «Corriere» nel
giorno in cui presenta la nuova edizione de I luoghi del cuore , il
censimento del posti da salvare: «Nel 2015 hanno risposto al nostro
appello un milione e 600 mila cittadini, mentre gli iscritti sono
aumentati del 22%». Cresce, insomma, l’impegno dei singoli. E la
conoscenza del territorio.
Forse è arrivato il momento, anche qui,
di non parlare più, genericamente, di finanziamenti, di aiuti a
pioggia, ma di andare a fondo, discutere di professionalità giuste,
calibrare bene le cose che servono. Per esempio, un settore
apparentemente «di nicchia» come il turismo nei giardini di pregio, solo
nel 2014 ha generato 8 milioni di visitatori nella rete dei Grandi
Giardini Italiani. Ebbene, quanti sanno che la professione del
giardiniere specializzato, in Italia, sta morendo? «Prima c’era la
famosa scuola di Roma, che formava gli specialisti, oggi rimane solo
quella di Monza», fa notare Bruno Lapadula, della sezione romana di
Italia Nostra. Quella romana, infatti, che preparava le figure più
raffinate, oggi è un centro di formazione e aggiornamento rivolto al
pubblico. E a Monza studiano soprattutto gli stranieri, i quali sanno
bene che il giardiniere non è solo quello che sarchia e pota, ma è anche
quello che ti spiega la storia di una peonia o la vita di una rosa
antica.
«La maggioranza dei musei rischia»
Così come
servirebbe uno specialista della sicurezza di musei, gallerie e
biblioteche, il «security manager», figura che da noi non esiste. A
Milano ha sede una delle pochissime fondazioni (forse è un unicum) che
si occupano della protezione di musei, gallerie e luoghi culturali, la
Fondazione «Enzo Hruby», della omonima famiglia che da anni realizza
impianti di sicurezza ad hoc per posti deputati alla cultura. Ogni anno
la Fondazione finanzia progetti che vanno a blindare luoghi come la
Biblioteca della Basilica di San Francesco d’Assisi o, progetto in
corso, lo Scrigno dei Tesori del Museo del Violino di Cremona. Il vice
presidente, Carlo Hruby, spiega: «Non si tratta solo di furti, anche se
questo resta il fattore di rischio maggiore. Si tratta anche di
proteggere le migliaia di capolavori che abbiamo dalla sbadataggine dei
visitatori o dall’impatto delle folle. Ma, nel caso dei furti, stando
alla mia esperienza, posso dire che la maggior parte dei musei ha, sì,
degli allarmi, ma spesso sono poco aggiornati. La moderna tecnologia
mette a disposizione dei sensori quasi invisibili che registrano minuzie
come lo spostamento d’aria. E costano poco, certamente meno di quello
che si spende per recuperare tele oggetto di furto». Per Hruby, che
conosce bene quasi tutti i musei italiani, appena «il 10 per cento può
dirsi blindato, cioè con quei sistemi che possano garantire la
protezione più totale».
Un dato: nel 2014 il Comando carabinieri
Tutela Patrimonio culturale, ha recuperato 135 mila opere rubate, per un
valore di 80 milioni di euro. Secondo l’Arma, il 40% dei beni trafugati
proviene dalle chiese. Lo stesso padre Savio, di Sant’Ignazio a Roma,
scuote la testa: «Il luogo di culto deve essere aperto, per sua natura».
Sì, ma come la mettiamo con le migliaia di opere d’arte? Un altro punto
debole sono le biblioteche. «Il libro è una delle cose più fragili, sia
per la conservazione che per la protezione — dice Daniele Jalla,
presidente di Icom Italia (International Council of Museums) —. Sapete
qual è uno dei furti più comuni? Quello delle raffigurazioni di pregio
nei libri antichi»: un paio di forbici, la distrazione dell’addetto alla
biblioteca e via.
Cresce la sensibilità dei cittadini
Antonia
Pasqua Recchia, la prima donna segretario generale del Mibac (per
capirci, colei che ha seguito da vicino la rinascita della Reggia di
Carditello), è ottimista: «La valorizzazione del patrimonio è una
questione di territorio. Per dire, stiamo facendo un lavoro sui cammini
religiosi che andrà a giovare a intere zone. Ma credo che gli italiani
siano oggi molto più sensibili. Penso ai risultati dell’Art Bonus, che
ha premiato soprattutto progetti locali». Emblematico il caso della
musica. A febbraio 2016, su 60 milioni e 692 mila euro di contributi
privati versati fino al 28 gennaio con il meccanismo dell’Art Bonus, 34
milioni e 534 mila, cioè il 57%, sono andati non solo alle fondazioni
lirico-sinfoniche ma anche ai teatri di tradizione. È un riprendersi il
territorio che fa ben sperare anche a chi studia la Lista Rossa di
Italia Nostra, l’elenco di beni a rischio.
Ecco perché è questo il
momento giusto per puntare i riflettori su casi meno eclatanti di
Pompei, ma ugualmente importanti. La piana di Sibari, per esempio,
quell’area archeologica affiorata in minima parte (si parla di appena il
10%) che potrebbe diventare una seconda Pompei e che, invece, come
denuncia Angelo Malatacca di Italia Nostra, è abbandonata a se stessa
per intere porzioni, tanto che le auto (in certi tratti) ne sfiorano i
confini. Come l’ex Dsse, Direzione Superiore Studi ed Esperienze,
dell’Aeroporto A. Barbieri di Guidonia, testimonianza dell’eccellenza
dell’aeronautica italiana.
È ora di apporre in tutto il Paese quei
piccoli cuori neri che «ascoltano» il battito della chiesa di
Sant’Ignazio. Dal cortile della quale, a proposito, si può scorgere la
finestra del ministro dei Beni Culturali. Un segnale che cade dal cielo?