venerdì 13 maggio 2016

il manifesto 13.5.16
Bellocchio e la ragione del dolore
Cannes 69. «Fai bei sogni», tratto dal romanzo di Massimo Gramellini, ha aperto la Quinzaine des Realizateurs. La morte di una madre e lo strazio del figlio, rimasto intatto attraverso gli anni e verità non dette. Ma è nello spazio del ricordo, quello dell’infanzia, che il regista dissemina il corpo a corpo del protagonista con la realtà. Una sfida della vita che anche stavolta riesce a rendere cinema
di Cristina Piccino

CANNES Premessa: dimentichiamo chi è nella «realtà» il protagonista di questo film. Cerco perciò di non pensare alla violenza delle parole che ha riservato a una ragazza, Doina Matei, in prigione per omicidio (ha ucciso in una lite un’altra ragazza con l’ombrello, ora è in regime di semilibertà), ma non per questo «condannata» a non sorridere per tutta la vita in una sorta di dannazione eterna come avrebbe voluto il giornalista in questione. Lui che nel suo romanzo autobiografico mette al centro l’intimità del dolore: come credergli se poi di questa dimensione segreta pretende l’instantanea a uso mediatico?
Ma questo è, appunto, un film e Marco Bellocchio è un regista speciale, capace come raramente accade anche (o forse soprattutto) tra i registi con meno esperienza di mettersi in gioco a ogni passaggio, di allenare le sue immagini a nuove prove, la sua poetica a differenti relazioni e traiettorie emozionali. Eccoci dunque nella Torino Fiat degli anni Sessanta, in quegli interni familiari che il regista ha spesso esplorato: un padre lontano, una mamma bellissima, un bimbo che la guarda con occhi innamorati. Poi, un giorno, come nelle fiabe più crudeli la mamma muore, il bimbo non ci crede, le grida di svegliarsi, di uscire dalla scatola di legno scuro che somiglia tanto a quella di cartone in cui, uno dei loro tanti pomeriggi di compiti, merenda e giochi si era nascosta per fargli uno scherzo. Fai bei sogni che ha aperto ieri la Quinzaine con moltissimi applausi (in Italia lo vedremo in autunno) nasce dall’omonimo best seller di Massimo Gramellini, giornalista de «La Stampa » e tra gli autori di Che tempo che fa, la storia di una morte, quella della madre, e di un dolore rimasto intatto attraverso gli anni nell’altalena dei ricordi e dei silenzi, delle omissioni e delle «false» verità che raccontano la scomparsa della donna. «Infarto fulminante» la spiegazione ufficiale data al bambino, una certezza che lui si porta dietro finchè è adulto, giornalista affermato, firma prestigiosa, e che solo il sorriso dolce, e lievemente incredulo della dottoressa di cui si innamora (Berenice Bejo) riesce a far vacillare.
Uomo (Valerio Mastandrea) imbambolato rispetto alla propria vita – nonostante la scaltrezza professionale – specie gli affetti, l’amore, le relazioni forse, anzi senz’altro per quel terrore dell’improvviso l’abbandono, la ferita del grande amore perduto.
Massimo si ritrova nell’appartamento da svuotare dopo la morte del padre, escamotage narrativo che gli permette di ripensare all’infanzia, all’adolescenza, ma soprattutto alla rimozione della morte materna. Come è morta la mamma chiede Massimo adulto a una zia chiamata di urgenza nel cuore della notte? Noi spettatori lo sappiamo da tempo: cosa può uccidere una donna in quell’Italia di casalinghe che aspettano il ritorno del marito a casa la sera, e che come lei collezionano figurine di cantanti Orietta Berti, Gianni Morandi, il cui solo piacere è la sigaretta accesa in cucina quasi di nascosto? Si muore di tristezza prima che di malattia, un salto nel vuoto e infine sul trafiletto di giornale non si era nemmeno donne ma «madri».
Può perdonare un figlio questa fuga eterna alla persona che ama di più? Però non è un biopic del personaggio questo, anche se ci sono molti passaggi che riguardano la sua vita professionale, cronista sportivo con nel cuore il Grande Torino, reporter in Bosnia, di Tangentopoli, firma in carriera (e i commenti del collega di cui prende il posto ne tracciano con caustica linearità le scelte) ma sono forse le parti più rigide di un film che vive invece laddove Bellocchio dispiega i luoghi del suo universo narrativo, ritrovando anche molti dei «suoi» attori come Roberto Herlitzka o Piera Degli Esposti. Il rapporto con la madre, la figura del padre, la famiglia, la fede, gli interrogativi senza risposta sulla morte, quella strana combinazione di sofferenza e di rabbia che solo l’amico immaginario del piccolo Massimo sembra comprendere. Belfagor agli altri fa paura ma per il ragazzino diviene una sorta di voce del super io, era lo sceneggiato che guardava alla tv con la madre e il destino di quel personaggio segreto e suicida somiglia tanto al suo.
È nello spazio del ricordo, che poi è quello dell’infanzia, commuovente e intenso, che Bellocchio (autore della sceneggiatura insieme a Valia Santella e Edoardo Albinati) dissemina il corpo a corpo del protagonista — magnifici i due piccoli interpreti, Nicoló Cabras e Dario Del Pero — con la realtà; un romanzo di formazione che è anche una seduta lunghissima di psicanalisi (Massimo adulto è spesso sdraiato sul suo lettino) di cui la macchina da presa con delicatezza illumina l’ostinazione caparbia a negare. La mamma vive a New York ripete ai compagni di classe sbirciando le facce delle altre madri che sono sempre lí, accanto ai figli, che li accompagnano in piscina e fanno il tifo per loro. Madri che sembrano un’apparizione come quella del suo amico del cuore, ricchissimo, ribelle, bello coi suoi capelli lunghi e i dischi dei King Crimson che sono appena arrivati da Londra. Lei (Emmanuelle Beart) seduttiva, sensuale, i due litigano e poi si abbracciano (quasi un omaggio a La luna di Bertolucci) e Massimo posa anche lui la testa sul seno morbido della donna.
Il femminile, il fantasma materno vivido di fronte all’immagine sbiadita nel quotidiano del padre col quale ogni rapporto sembra impossibile.
Ma quelle stanze di un bambino degli anni del boom economico ci dicono molto anche della storia italiana che entra in casa con la tv, e dallo schermo in bianco e nero di molte promesse felici con l’ombelico di Raffaella Carrà passa al colore dei processi di Tangentopoli, Di Pietro e il pool, un flusso costante che non riguarda solo la professione del personaggio. Anzi di quello «vero» ci siamo dimenticati, rimane il sentimento astratto, universale, fuori dal tempo del dolore e la ricerca di una ragione. La sfida della vita che Bellocchio anche stavolta riesce a rendere cinema.