venerdì 13 maggio 2016

Corriere 13.5.16
Dadaab
È il campo profughi più grande del mondo Il Kenya lo vuole chiudere
di Alessandra Coppola Michele Farina


Come si fa a smantellare «nel più breve tempo possibile» una città-tendopoli di 340 mila abitanti (quanti Novara o Benevento) cresciuta per un quarto di secolo in un deserto di cespugli spinati? Come svuotare «il più grande campo profughi del mondo», nato nell’ultimo lembo orientale del Kenya per i disperati in fuga dalla guerra in Somalia?
Da allora Dadaab («luogo roccioso e duro» nella lingua locale) è diventato un limbo «permanente» con tanto di mercati, tornei di calcio, cinema, cimiteri (persino un «quartiere a luci rosse»). Bono, la voce degli U2, l’ha visitato ad aprile: «Ho incontrato un popolo invisibile — ha scritto sul New York Times — esiliato due volte: dal Paese di origine e da quello di residenza». Per Bono, Dadaab è un «gigantesco parcheggio della disperazione», dove si sono ammassati profughi di varie crisi. Un terzo degli abitanti è nato lì, in quella ragnatela di tende di plastica. Anziché permettere costruzioni in muratura, il Kenya ha deciso una soluzione urbanistica radicale. Chiudere Dadaab «il prima possibile». E mandare tutti in Somalia. Dove la guerra continua.
Non è la prima volta che il governo di Nairobi parla di chiusura. Questa volta sembra più determinato: Dadaab è «una minaccia alla sicurezza nazionale». I miliziani islamisti di Al Shabaab hanno fatto centinaia di morti in Kenya. Non ci sono prove che siano partiti dai campi profughi, anche se la loro infiltrazione nella gigantesca Dadaab sembra scontata. Ma questo basta per cacciare migliaia di bambini nell’inferno da cui sono fuggiti i genitori? I bambini raccontati da Ben Rawlence in «City of thorns». Nella «città di spine» vivono anche i 5 figli di una donna fuggita dalla Somalia con un bagaglio minimo. Un piatto, una teiera, una tazzina. Due settimane di viaggio nella boscaglia: per far camminare il bimbo più piccolo, sfinito, la mamma diceva che dietro li inseguiva un leone.
I leoni di Nairobi hanno il pungolo delle presidenziali 2017. Anche in Kenya sicurezza e rifugiati sono temi elettorali. Il leader uscente Uhuru Kenyatta gioca in anticipo la carta dell’uomo forte. Venerdì scorso il ministero dell’Interno ha annunciato l’intenzione di chiudere sia Dadaab che Kakuma (l’altro campo profughi verso il Sud Sudan travolto dalla guerra civile): 600 mila rifugiati in tutto. Martedì la rettifica: il piano interessa solo Dadaab. Il campo più grande, più vecchio, che continua a chiamarsi «temporaneo». Il governo ha creato una task force per studiare il suo smantellamento. Comunque vada, non può essere questione di settimane, o di mesi.
Ma dove potrebbe andare quella gente? È la principale preoccupazione dell’Unhcr, l’agenzia Onu per i rifugiati che partecipa alla gestione dei campi kenyani. Marco Lembo (Unhcr a Nairobi) dice al Corriere : «L’importante è che il Kenya rispetti le convenzioni che ha firmato: i rimpatri possono essere solo volontari». Ma chi può volontariamente tornare in Somalia, dove gli Shabaab hanno intensificato gli attacchi? Non è escluso che molti possano avventurarsi verso il Mediterraneo. Anche se in Europa i rifugiati somali non beneficiano di ricollocamenti.
Alessandra Morelli è un funzionario Unhcr che ha negoziato l’accordo del 2014 tra Kenya e Somalia per i rimpatri: «Avevamo definito tre zone, se non sicure quanto meno “gestibili”, dove chi accettava di rientrare poteva essere sostenuto». Già il piano per 60 mila rimpatri sembrava impegnativo. Come si fa a svuotare tutto «il parcheggio della disperazione»?