domenica 1 maggio 2016

Corriere1.5.16
Lo stallo perenne di Genova e le contraddizioni del Pd
di Marco Imarisio

Ogni volta è per grazia ricevuta. Appena due giorni fa la scialuppa di salvataggio è stata gentilmente fornita dai consiglieri dell’Udc, che si sono astenuti dall’ennesimo voto che avrebbe potuto portare al commissariamento del comune di Genova. In altre occasioni il mutuo soccorso è arrivato addirittura dal Pdl, terrorizzato dalla prospettiva del ritorno alle urne. Sempre sotto forma di assenze strategiche, necessarie all’abbassamento del numero legale, unica condizione per la sopravvivenza dell’attuale giunta.
Marco Doria, il sindaco della sinistra-sinistra che incarnava la speranza di rinnovamento, l’uomo che aveva risvegliato la coscienza della sempre mitica società civile battendo alle primarie del 2012 le due prime donne del Pd, la bersaniana Marta Vincenzi e Roberta Pinotti, attuale ministro della Difesa, non ha i numeri per governare. E non di poco, e non da ieri. Genova rappresenta un punto d’osservazione privilegiato sulle contraddizioni della sinistra al governo e del Partito democratico. E le loro conseguenze.
Alla fine tutto si riduce a una questione politica, che prescinde persino dall’efficienza dell’attuale amministrazione. Doria, persona di desueto spessore morale, non si è mai trovato nella condizione di lavorare al meglio. Lui ci ha messo del suo all’inizio, assecondando un civismo colorato di arancione così radicale da risultare utopico anche in premessa, per ritrovarsi poi con esponenti della sua lista che gli hanno spesso votato contro accusandolo di sacrificare lo spirito delle origini sull’altare della governabilità. Il resto è farina che proviene dal sacco del suo azionista di maggioranza, quel Pd che nel 2012 si dichiarò unito come un sol uomo nel sostegno al nuovo sindaco. La rovinosa vicenda delle ultime elezioni regionali, con la fuoriuscita di un pezzo di sinistra del Pd, hanno certificato lo status di Genova impermeabile al renzismo. Raffaella Paita, candidata pd sconfitta in quell’occasione, la definì «capitale di una cultura di sinistra massimalista e radicale», uscita che non giovò all’armonia interna.
Nella città più vecchia d’Italia dove i militanti affermano con orgoglio che la sinistra vincerebbe anche schierando un paracarro, il Pd è diviso in almeno tre fazioni. I renziani della prima ora si guardano in cagnesco con i renziani di nuovo conio che a loro volta detestano gli esponenti del «vecchio» partito, ancora maggioritario. Il governo cittadino sembra una fermata d’autobus all’ora di punta. Qualche consigliere se ne va perché Doria si è «venduto» a Renzi, qualcun altro perché lo considera troppo poco renziano. Tra fuoriuscite e cambi di casacca, il Gruppo misto è ormai la seconda rappresentanza consiliare.
E così Doria sfida i sindacati dell’azienda dei trasporti pubblici, ma non troppo perché non può. Avviene lo stesso per la questione delle periferie, della spazzatura, delle partecipate. Mai una gioia. Nel giorno in cui porta a casa 25 milioni di euro per il finanziamento del Blueprint di Renzo Piano, incassa anche l’accusa implicita di collusione con il nemico e mette a rischio il consueto voto-spada di Damocle. Un passo avanti, uno indietro. Come il Pd, che un giorno afferma di puntare ancora su di lui, e quello seguente chiede le sue dimissioni, dipende da chi prende la parola. Tutto questo farebbe la felicità di un bravo psichiatra, non fosse per il fatto che ci va di mezzo una città e il suo futuro. C’era una volta il triangolo industriale. Milano è Milano. Torino ha cambiato volto. Genova sembra sempre prigioniera di uno stallo perenne. Eppure, solo in questa settimana, sono sbarcati quindicimila crocieristi, giustamente affascinati da una città stupenda, che meriterebbe maggiore senso di responsabilità da parte del suo ceto politico.