domenica 8 maggio 2016

Corriere La Lettura 8.5.16
La scienza si è fermata al 1580
Tycho Brahe apre l’osservatorio danese, Istanbul distrugge il suo
Il poeta Adonis e il Nobel Salam: oscurantismo islamico senza fine
Non è una questione di risorse. Né di livelli di educazione. Ma qualcosa di profondo ha tarpato le ali alla ricerca scientifica nel mondo musulmano
di Guido Tonelli

Hessam ci aveva avvisato. La frase con cui l’imam della grande moschea di Isfahan aveva aperto il nostro primo workshop in Iran è una delle poche frasi in arabo che conosco: «Nel nome di Dio, il Misericordioso, il Compassionevole». Era arrivato pochi minuti prima, elegantissimo, con la lunga tunica marrone e il copricapo bianco.
È il 20 aprile 2009. Siamo atterrati da Ginevra, una decina, per partecipare a questa prima conferenza sulla fisica di Lhc organizzata dai nostri colleghi iraniani. Il gruppo di giovani scienziati è guidato da Hessamaddin Arfei, un bravo teorico di stringhe. Hessam non ha alcuna esperienza nella fisica sperimentale, ma ha deciso che il modo migliore per rompere l’isolamento della ricerca scientifica, nel Paese di Mahmoud Ahmadinejad, è di partecipare con noi alla caccia al bosone di Higgs. Si sono uniti al nostro esperimento — Cms — e lavorano gomito a gomito con un gruppo di fisici statunitensi. Devono realizzare insieme il calorimetro della parte in avanti, un rivelatore speciale che dovrà essere integrato col gigante da 12 mila tonnellate che stiamo costruendo al Cern. Quando sono riusciti a completare l’installazione, li ho visti esultare insieme e abbracciarsi.
Il workshop di Isfahan è stato un successo. La grande Persia, fiera della sua storia millenaria, sottolinea in ogni occasione tutto ciò che la contraddistingue dai suoi vicini arabi. Le esperienze che abbiamo avuto in altri Paesi musulmani sono state ben diverse. Talvolta c’è voluto tutto il nostro spirito di adattamento per sopravvivere alla burocrazia o alle difficoltà di situazioni sociali e politiche molto critiche. Il culmine l’abbiamo toccato in Pakistan un paio d’anni prima, nel marzo 2007. Dopo lunghi preparativi era stata organizzata una scuola per giovani fisici a Islamabad, la moderna capitale. Avevamo colto l’occasione per una visita di alto livello da parte del Cern, e così avevamo incontrato i ministri della ricerca e dell’educazione e chiesto più fondi per il gruppo di fisici che partecipavano a Cms. Hafeez Hoorani, il giovane collega che guidava il gruppo di pachistani del nostro esperimento, aveva fatto di tutto per rendere piacevole il nostro soggiorno e i ragazzi e le ragazze della scuola erano intelligenti e curiosi. Ma il Paese era praticamente in stato d’assedio. Due settimane prima dell’inizio della scuola, un attentatore suicida aveva demolito con un camion bomba l’hotel dove avremmo dovuto alloggiare, provocando una strage con decine di morti. Le misure di sicurezza erano impressionanti. La mattina venivano a prenderci per portarci all’università. Salivamo su due piccoli pullman scortati da autoblindo di soldati in assetto da guerra, e ogni giorno si cambiava tragitto. A cinquecento metri dall’albergo gli studenti avevano occupato Lal Masjid, la Moschea Rossa, che era famosa in tutto il Paese per la sua madrassa, la scuola coranica, uno dei centri dell’integralismo q aedista . Era stata trasformata in fortino, con turni di guardia alle mura. Ogni tanto gruppi di un centinaio di ragazzi o ragazze giovanissimi — non avranno avuto più di 15 anni — uscivano dalla moschea in formazione para-militare. Un blocco compatto e nero di giovani che urlavano slogan e impugnavano lunghi bastoni. Andavano al suq, il mercato, distruggevano i rari negozi di dischi, frustavano le ragazze che lasciavano scoperto un filo di capelli, spaventavano tutti e rientravano.
Poi la situazione era degenerata e ne era nata una sfida aperta alle autorità. Alla fine Pervez Musharraf, il generale a capo del governo, aveva deciso di usare il pugno duro. Noi eravamo già rientrati a Ginevra quando, su tutti i giornali, comparve la notizia che la Moschea Rossa era stata attaccata dalle forze speciali dell’esercito. L’avevano espugnata dopo due giorni di combattimenti. Quasi cinquecento di quei ragazzi fanatici che vedevamo passare tutti i giorni sotto le finestre del nostro albergo erano stati uccisi. È il Pakistan delle mille contraddizioni. Scopriremo qualche anno più avanti che, mentre noi discutevamo di supersimmetria e extradimensioni, l’uomo più ricercato al mondo, Osama Bin Laden, se ne stava nel suo compound di Abbottabad a poco più di cento chilometri dalla nostra bella aula universitaria.
La fisica delle alte energie è un ottimo punto di osservazione per capire contraddizioni e potenzialità del rapporto del mondo islamico (e di quello arabo) con la scienza moderna. Negli ultimi anni, molti Paesi musulmani hanno manifestato un forte interesse a partecipare alle grandi imprese scientifiche della fisica fondamentale. Il fenomeno coinvolge praticamente tutti i Paesi, non soltanto quelli che, da tempo, hanno deciso di sviluppare la tecnologia nucleare, come Iran e Pakistan. Il potenziale è enorme, un miliardo di persone, in larga parte giovanissime, milioni di studenti avidi di sapere; ragazzi ansiosi di cimentarsi con le sfide intellettuali più difficili e di competere alla pari con i loro coetanei europei, americani o asiatici. Ma, tranne rare eccezioni, il gap di sviluppo tecnologico e scientifico con le società occidentali più avanzate è tuttora enorme.
Non è una questione di risorse — Paesi come gli Emirati del Golfo o l’Arabia Saudita, con i loro fondi sovrani, sono in grado di muovere capitali giganteschi. E neanche di livelli di educazione — per quanto, in media, la preparazione di base degli studenti sia tuttora lacunosa, molti Paesi islamici hanno sistemi educativi dignitosi, alcuni decisamente buoni.
C’è qualcosa di più profondo che ha tarpato le ali alla ricerca scientifica nel mondo musulmano. È un meccanismo che ha bloccato per secoli quello sviluppo della conoscenza che ha fatto la fortuna dei Paesi occidentali più avanzati e che è tuttora in azione. Come è stato possibile che si sia accumulato un ritardo così grave proprio nei Paesi che sono stati la culla della scienza moderna? Gli stessi che hanno portato all’Europa, nei cosiddetti secoli bui, l’algebra, l’astronomia e la medicina, faticano a trovare un ruolo nel secolo dell’innovazione e della conoscenza.
Mentre Roma precipitava nel Medioevo, al Cairo si traducevano le opere di Euclide, di Archimede e dei grandi pensatori greci. I musulmani avevano appreso l’arte della fabbricazione della carta dai cinesi, e l’avevano trasformata in un’industria. Chioschi di copiatori, i warraqin , si trovavano ovunque, e in poche ore erano in grado di riprodurre un libro di cento pagine. In breve nacquero le librerie — nel solo quartiere di Waddah, un sobborgo di Bagdad, alla fine del IX secolo se ne contavano un centinaio, mentre ogni grande città ospitava decine di biblioteche pubbliche. Per più di tre secoli gli unici che hanno prodotto scienza di altissimo livello sono stati i musulmani, arabi e persiani.
Quando si è spezzato questo meccanismo virtuoso? Abdus Salam, il grande scienziato pachistano, premio Nobel nel 1979, scomparso nel 1996, uno dei padri del Modello Standard e fondatore del Centro internazionale di Fisica teorica di Trieste, faceva risalire tutto a circa mille anni fa. È il periodo della grande decadenza del mondo islamico, che si è aperto con la riconquista cristiana di Toledo e poi con la caduta di Bagdad per mano dell’impero mongolo. Il doppio shock segnò la fine del periodo magico dell’islam vittorioso ed espansivo. Quando pareva potesse conquistare il mondo con la forza delle armi, ma vantava anche un’indiscussa egemonia scientifica e culturale. Come spesso succede, il clero reagì al disastro con il richiamo all’ortodossia e il potere politico trovò ottimi motivi per basare sulla nuova dottrina la sua piena legittimazione. Figura emblematica di questo radicale cambiamento fu il filosofo e mullah Abu Hamid al-Ghazzali (1058-1111), persiano. Gli oscurantisti predicarono il primato della rivelazione sulla ragione, condannarono la matematica come un’attività capace di contaminare l’anima e insegnarono che l’uomo non poteva arrogarsi il diritto di fare previsioni sul mondo naturale. Una prerogativa che spettava a Dio. Tragedia ancora peggiore, proibirono di stampare nuovi libri, chiusero le biblioteche, scomunicarono pensatori e spiriti liberi. È la cultura del tawhîd , secondo la quale il mondo è governato direttamente, fin nelle cose più minute, dalla mano potente di Dio che è presente ovunque e in tutti i tempi.
C’è una data emblematica di questo processo: il 1580. È l’anno in cui, nell’isoletta danese di Hven, Tycho Brahe inaugura Uraniborg, il suo osservatorio astronomico d’avanguardia. «Nello stesso anno — ricordava Abdus Salam — il mullah di Istanbul faceva saltare con l’esplosivo l’ultimo osservatorio astronomico del mondo islamico. Il clero sospettava che in quel posto potessero nascere idee nuove».
«La perdita della tradizione razionalista fu una tragedia da cui il mondo islamico non si è ancora ripreso», è il commento sconsolato di Pervez Hoodbhoy, un altro fisico pachistano di fama internazionale. Ancora più duro Adonis, poeta siriano, uno dei più importanti intellettuali del mondo arabo. Nel suo recente libro-intervista Violenza e islam (Guanda) sostiene una posizione altrettanto radicale: «La concezione oggi prevalente nell’islam continua a considerare l’islam stesso fonte di tutte le verità... Il progresso, secondo questa prospettiva, è una imitazione perfetta delle origini... La cultura che non considera l’avvenire se non come riscrittura del passato, non vede alcun progresso. Purtroppo, finché una simile visione regnerà sulla società araba, si può dire che a procedere sarà solo la regressione».
Rivedere alla radice il rapporto fra islam e scienza moderna metterebbe in discussione alcuni dei pilastri ideologici che stanno alla radice del fondamentalismo islamico nelle sue versioni wahabita e salafita. Investire oggi in ricerca scientifica significherebbe rompere radicalmente con una tradizione religiosa che è tuttora ampiamente strumentalizzata, per motivi politici, da una parte delle classi al potere nei più importanti Paesi islamici. Forse è proprio questo il motivo delle difficoltà.

Fra le tante «visioni» che il mondo dei libri può regalare, la scienza occupa un ruolo di prim’ordine grazie alla sua dimensione al tempo stesso reale e anticipatrice del futuro. Lo dimostrano le numerose iniziative che il Salone quest’anno offre tra laboratori, incontri (alcuni con il Cnr) e presentazioni di nuove opere. Ne scegliamo alcune cominciando dalla storia di un esploratore come Vasco da Gama, primo europeo a navigare direttamente verso l’India doppiando il Capo di Buona Speranza: Carlo Ginzburg dialoga con Sanjay Subrahmanyan, autore di Vita e leggenda di Vasco da Gama , edito da Carocci ( domenica 15, alle 14.30, Spazio autori) . Se vogliamo proiettarci nello spazio e nel tempo l’opportunità è legata all’incontro con Carlo Rovelli, maestro della gravità quantistica di cui racconta con piacevole coinvolgimento nel suo libro Sette brevi lezioni di fisica (Adelphi), diventato un bestseller internazio nale (sabato 14, alle 16.30, Sala Gialla) . E sempre sulla scena cosmica c’è Christophe Galfard, autore de L’universo a portata di mano (Bollati Boringhieri), che ci porta in viaggio tra atomi e stelle (venerdì 13, ore 14.30, Arena Bookstock) . I più piccoli invece possono fermarsi Alla scoperta del sistema solare tra illustrazioni e animazioni giocose (venerdì 13, ore 13, Digilab) . Maurizio Balistreri parlerà del suo libro Il futuro della riproduzione umana (Fandango) guardando alla nostra evoluzione (venerdì 13, alle 13, Independents’ Corner) . Ma per assicurarci davvero il futuro sarà utile seguire Smartfood e nutrigenomica che prende le mosse dal libro Rizzoli, La dieta Smartfood di Eliana Liotta, Pier Giuseppe Pelicci e Lucilla Titta (giovedì 12, alle 16, Casa CookBook) .