Corriere La Lettura 8.5.16
Un eretico nella bufera
La sfida al conformismo di Renzo De Felice
di Simona Colarizzi
A
vent’anni dalla scomparsa di Renzo De Felice, Giuseppe Parlato,
presidente della Fondazione «Ugo Spirito - Renzo De Felice», e un’équipe
di ricercatori hanno concluso un lungo e prezioso lavoro di raccolta
degli articoli scritti da De Felice e delle interviste da lui rilasciate
sulla stampa quotidiana e sulle riviste nell’arco della sua intera vita
di storico. I tre volumi in via di pubblicazione (Luni editrice), che
sono introdotti da giornalisti (Stefano Folli, Pierluigi Battista e
Pasquale Chessa), ci offrono la testimonianza dell’impegno civile di uno
dei maggiori studiosi della storia contemporanea. Un impegno
intrecciato indissolubilmente alla conoscenza, tanto più che per lui il
fascismo, tema centrale dei suoi studi, «ci piaccia o non ci piaccia ha
costituito il nodo della nostra storia nazionale in questo secolo» ( Il
fascismo e gli intellettuali , «Il Giornale», 30 giugno 1974).
I
volumi della biografia di Mussolini, le interpretazioni del fascismo e i
tanti saggi dedicati agli anni e ai personaggi del regime, che hanno
segnato una pietra miliare nella storiografia italiana, avevano
suscitato a partire dalla fine dei Sessanta una tempesta tracimata ben
al di là degli ambienti accademici. Contro De Felice si era riversata
una valanga di insulti: da revisionista a giustificazionista, a
restauratore di una ingannevole oggettività, fino a definirlo esponente
della nuova destra perché aveva osato mettere in discussione la vulgata
marxista dominante che leggeva il fascismo solo nel contesto della lotta
di classe. Quel regime, espressione massima del sistema capitalista,
non poteva aver suscitato consenso di massa, non era il risultato di
quella crisi di identità che aveva scosso le popolazioni di tutta Europa
dopo la Prima guerra mondiale, come sosteneva De Felice. Cercare nella
documentazione degli archivi una più articolata interpretazione dei
tanti volti della dittatura, della complessità del fenomeno fascista,
significava legittimare un regime violento e autoritario che dei
movimenti neofascisti degli anni Sessanta e Settanta era ancora il punto
di riferimento.
Certo, il clima politico di quel periodo spiega
in parte la virulenza degli attacchi che colpivano anche tutti i giovani
ricercatori allevati alla scuola di De Felice. Proprio l’asprezza delle
lotte politiche in corso, gli scontri tra giovani che al fascismo e
all’antifascismo facevano riferimento, le stragi e il terrorismo
portavano a evocare continuamente la presa fascista del potere nel
1922-1925, anche se De Felice insisteva al contrario sul concetto di un
fascismo come fenomeno storico concluso, rifiutando l’accostamento tra i
giovani contestatori del 1977 e gli squadristi ( I nuovi figli del caos
, «Il Giornale», 13 aprile 1977). Analogie superficiali e strumentali
che non aiutavano a capire le cause di fondo, cioè un contesto sociale,
politico, economico e culturale ben diverso da quello del primo
dopoguerra. Ma naturalmente, questa posizione alimentava solo la
polemica dei suoi avversari.
Gli articoli e le interviste di De
Felice sulla stampa, oggi ripubblicati tutti insieme, non sono una
difesa dalle accuse che gli venivano rivolte; sono invece un atto di
accusa. Un atto di accusa contro l’opportunismo degli intellettuali
italiani. Intellettuali provinciali arroccati «in schemi interpretativi
di tipo ideologico che portano a ridurre tutto a una sola causa, quella
classista, e a ignorare praticamente i problemi e le realtà stesse che
questi schemi non possono accettare» ( Hitler come Robespierre , «Il
Giornale», 5 aprile 1975). Quegli intellettuali «partitizzati» che
presentano gli avversari politici come mostri o marionette, che leggono
la storia in bianco o in nero. De Felice sceglieva invece il grigio e lo
rivendicava. Si collocava in quella terra di nessuno, tra quegli
intellettuali «che per disposizione psicologica e morale, ma anche e di
più per fedeltà alla loro ricerca originale, si trovano a non
riconoscersi in tutto o in parte con i poteri politici dominanti, con le
correnti pubblicizzate della cultura, e infine con i conformismi e le
mode correnti».
Il che non significa che De Felice non avesse
solidi valori democratici di riferimento; rivendicava però la libertà di
critica, l’approccio problematico alla ricerca, lo spirito «eretico»
come virtù: «Eretici nei confronti dei vari conformismi politici, in
opposizione tra loro, ma infine sempre solidali nel fastidio che provano
nei confronti di coloro che li mettono a cimento» (Intervista a
Gianluigi Degli Esposti, «La Nazione», 22 febbraio 1976). Soprattutto lo
angosciava il contagio del conformismo tra i giovani che sceglievano la
strada della ricerca storica — e «ho molti giovani attorno», confidava
nell’intervista a Degli Esposti. Tra questi giovani ero anch’io e la
lezione di De Felice non l’ho mai dimenticata.