domenica 22 maggio 2016

Corriere La Lettura 22.5.16
Homo naledi
L’antenato metà moderno e metà arcaico
Le ossa ritrovate in Sudafrica complicano la scena dell’evoluzione
di Giovanni Caprara

«Homo naledi è una nuova specie, chiave di volta dell’evoluzione». Damiano Marchi, paleoantropologo dell’Università di Pisa, non fa mistero della soddisfazione di essere parte, unico scienziato italiano, di una grande scoperta sull’origine dell’uomo, annunciata nel settembre scorso, che ora racconta nel libro Il mistero di Homo naledi (Mondadori). Ma perché il ritrovamento è tanto importante? «Perché abbiamo a disposizione tantissimi reperti — nota Marchi — i quali offrono una completezza scheletrica. Così possiamo ricavare una visione d’insieme più precisa, che ci fa capire di essere davanti a una nuova specie di ominide».
La scoperta è avvenuta in una zona a una cinquantina di chilometri da Johannesburg, in Sudafrica, nota come la culla dell’umanità. Due speleologi nel settembre 2013 entrarono in un antro battezzato «Camera di Dinaledi», all’interno del sistema di grotte «Rising Star», stella nascente. Durante la missione condotta dall’Università di Witwatersrand con la National Geographic Society sono state estratte 1550 ossa fossili: erano i resti di Homo naledi («stella», nella lingua locale sotho). «Alto un metro e mezzo e pesante 45 chilogrammi aveva un cervello piccolo come un’arancia, ma sono le sue differenti doti ad averci sorpreso. Infatti ha mani adatte ad arrampicarsi bene sugli alberi e nello stesso tempo ha gambe e piedi che gli garantiscono di camminare in posizione eretta per lunghe distanze. Vale a dire che si presenta con una struttura scheletrica primitiva nella parte alta del corpo e moderna in quella bassa. Insomma, una specie di chimera ricca di significati nuovi».
Marchi, 43 anni, è stato scelto, con oltre cinquanta esperti, per analizzare i resti fossili grazie alla sua specializzazione nella morfologia funzionale degli arti maturata con sei anni di ricerca alla Duke University (Usa) assieme a Steven Churchill, uno dei paleoantropologi più autorevoli. Inoltre ha lavorato un anno all’ateneo di Witwatersrand in una stanza non lontana da quella di Lee Berger, ora alla guida della scoperta di Homo naledi . «La diversità riscontrata negli arti — racconta lo studioso — propone numerose spiegazioni sulle quali pesa il mistero dell’età non ancora stabilita. Homo naledi potrebbe essere esistito 2,5 milioni, oppure soltanto 500 mila anni fa. Nel secondo caso, e sarebbe l’ipotesi più affascinante, si presenterebbe come una rivoluzione nelle ricerche sull’evoluzione. Infatti vorrebbe dire che il genere Homo ha conservato tratti arcaici in grado di crescere in armonia con gli aspetti più nuovi man mano il tempo favoriva le mutazioni. Stabilire l’età, però, non è un’impresa semplice».
I motivi sono diversi, anche se le ossa sono state rinvenute in una camera quasi ermeticamente isolata dall’esterno e la loro ottima conservazione le fa apparire come vere ossa, non del tutto fossilizzate. «Si sta facendo ricorso a vari metodi di analisi in diversi laboratori — aggiunge Marchi —, anche perché non è possibile utilizzare la più nota tecnica del decadimento radioattivo dell’uranio nelle rocce stalagmitiche circostanti, in quanto i loro strati risultano inquinati da particelle di argilla. Quindi per gli esami bisogna distruggere qualche frammento fossile: è quello che si è deciso di fare per arrivare a un dato fondamentale necessario al completamento della scoperta. Ma siamo vicini».
Nonostante l’assenza di una precisa età, Homo naledi è già stato definito una nuova specie. «Indipendentemente da quando sia vissuto, proprio le sue caratteristiche lo pongono a un punto di congiunzione morfologica tra australopitechi e genere Homo . Ciò rende ancora più affollato il cespuglio dei nostri antenati dai quali è emerso l’ Homo sapiens . I misteri di Homo naledi restano molti. Uno importante consiste nell’aver trovato raccolte le ossa appartenenti a 15 individui: neonati, anziani, maschi, femmine e cinque bambini. Sono insieme in un solo luogo: come sono giunti lì? Forse Homo naledi deponeva intenzionalmente i propri morti?».
Le nostre origini, dunque, si complicano quanto più le scoperte si infittiscono. Nell’ultima quindicina d’anni i ritrovamenti hanno ridisegnato lo schema di una sequenza lineare, come in precedenza si credeva, nei passaggi dall’antenato comune con la scimmia all’uomo. Nel 2003 sull’isola di Flores, in Indonesia, si scopriva Homo floresiensis , presente in contemporanea a Homo sapiens sul continente. Nel 2010 era il turno di Australopithecus sediba , rinvenuto sempre da Lee Berger a Malapa, in Sudafrica, e considerato una specie di transizione tra Australopithecus africanus e il genere Homo . Nel 2015 sono stati trovati strumenti in pietra risalenti a 3,3 milioni di anni fa, i quali dimostrano che alcuni Australopithecus avevano la capacità di realizzare simili utensili ben prima di quanto si ritenesse. «È vero — conclude Marchi — che la scena si complica, ma diventa anche scientificamente più ricca».