domenica 22 maggio 2016

Corriere La Lettura 22.5.16
La germanizzazione dell’Europa
Berlino oggi esercita sul Continente un’egemonia che è priva del necessario contrappeso
Opportunismo e intolleranza sono le dure accuse rivolte al «sistema Merkel» sul piano interno
Ma è nell’ambito dell’Ue che la politica moralista della cancelliera provoca i guasti maggiori
di Maurizio Ferrera

L’ossessione tedesca per la stabilità finanziaria è principalmente associata alle immagini di Wolfgang Schäuble, il potente ministro delle Finanze, e di Jens Weidmann, il presidente della Bundesbank. In effetti sono loro i più ostinati guardiani dell’austerità. Negli ultimi anni, senza peli sulla lingua, questi due personaggi hanno spesso rimproverato i Paesi sud-europei per il loro lassismo, esaltando le virtù germaniche. Da qualche mese, hanno iniziato a prendersela direttamente con Mario Draghi: il suo quantitative easing sarebbe inefficace, illegale e, soprattutto, dannoso per i risparmiatori e persino per la stabilità politica della Germania.
Angela Merkel ha un’immagine più rassicurante. Tutti sanno che è contraria agli eurobond e favorevole ai «compiti a casa». Ma il suo linguaggio è più garbato, il suo stile meno diretto, a volte addirittura titubante. La nuova politica di accoglienza dei rifugiati l’ha fatta apparire umana ed ospitale. «Suvvia, possiamo farcela», ha detto a Monaco lo scorso settembre, annunciando l’apertura delle frontiere ai siriani. Interpretando così il ruolo di una brava mamma — Mutti , in tedesco — ferma nell’educare i propri figli, ma anche affettuosa nei momenti di bisogno.
Al di là di questi tratti, qual è la vera natura di Angela Merkel come leader politico? Non si governa per più di dieci anni un grande Paese senza doti di comando, senza un’efficace strategia di conquista e mantenimento del potere. Qualche anno fa, in un breve libro che fece discutere, Ulrich Beck coniò il termine «Merkievelli»: Angela sarebbe un misto di opportunismo e ambizione. Un profilo simile è stato da poco tracciato da Wolfgang Streeck, un sociologo internazionalmente noto, per molto tempo direttore del prestigioso Istituto Max Planck per la ricerca sociale di Colonia. E anche un indiscusso maitre-à-penser della sinistra, erede della scuola di Francoforte. In un saggio uscito ai primi di maggio sulla «Frankfurter Allgemeine Zeitung», Streeck ha proposto una definizione ancora più critica rispetto a quella di Beck. Merkel è un leader politico postmoderno, caratterizzata da un disprezzo premoderno sia per le «cause» (i valori) sia per il popolo: un pericolo per la democrazia in Germania e per i destini dell’Unione Europea nel suo complesso.
All’interno della Germania, il «sistema Merkel» è imperniato sulla de-mobilitazione selettiva degli avversari. Se emerge una questione controversa, la cancelliera dapprima tace, poi si finge d’accordo, badando bene di non alienarsi le simpatie dell’opinione pubblica. Non prende impegni precisi. Quando passa il polverone, Angela decide poi come vuole. Cambiando spesso idea (come sul nucleare). Oppure tornando sui propri passi, come sui rifugiati. Infatti quando si è accorta che, a fronte dei flussi inarrestabili provenienti dalla rotta balcanica, l’amministrazione pubblica «non poteva farcela», che stava montando l’opposizione esplicita della Baviera e di altri Länder e, soprattutto, che l’appoggio degli elettori stava calando, la cancelliera ha fatto marcia indietro, rimangiandosi l’impegno a non porre limiti agli accessi e cercando di scaricare il barile su altri Paesi, «europeizzando» costi e responsabilità.
La crisi dei rifugiati ha messo a nudo anche un altro tratto del sistema Merkel: la spregiudicatezza istituzionale, che ha trasformato il cancellierato in una sorta di «presidenza personale». Fra settembre e gennaio, Angela ha gestito la crisi arrogandosi prerogative di cui non disponeva. Il ministero degli Interni è stato escluso dalle principali decisioni, l’apertura delle frontiere non è stata preceduta da alcuna delibera parlamentare o del governo. Chi faceva domande sulla base legale della nuova Wilkommenspolitik veniva tacciato di «fare il gioco della destra», una sanzione retorica potentissima nell’ambiente politico e intellettuale tedesco. Un’altra caratteristica del sistema Merkel, secondo Streeck, è proprio la scomunica di ogni espressione e forma di dissenso. Può entrare nelle grazie del sistema solo chi è pronto alla deferenza, al sacrificium intellectus .
Anche sul versante europeo esiste un riconoscibile sistema Merkel. Il suo tratto principale è dare per scontato che l’interesse della Ue debba coincidere con quello tedesco. Ma attenzione: non si tratta di una subordinazione del secondo al primo (la via della Germania europea, a suo tempo già auspicata da Thomas Mann e da molti altri intellettuali dopo di lui), bensì del suo contrario: la via di un’Europa sempre più tedesca. Ciò che è bene per la Germania è, per definizione, bene anche per tutti gli altri Paesi membri. Per il sistema Merkel, dice Streeck, non c’è nulla di immorale in questa posizione. Anzi, essa è vista come la quintessenza della moralità. L’intellighenzia merkeliana identifica il controllo tedesco della Ue come il trionfo del post-nazionalismo, o meglio di quell’anti-nazionalismo che sarebbe la grande lezione prodotta proprio dalla storia della Germania. Così, in parte senza neppure rendersene conto, l’interesse nazionale di Berlino viene assunto, quasi per auto-evidenza, come moralmente superiore a quello degli altri.
Anche in questo caso, Streeck si riallaccia alle tesi di Beck. Lo studioso bavarese (tristemente scomparso l’anno scorso) aveva infatti già osservato come durante la crisi fossero riemerse alcune caratteristiche non proprio commendevoli della tradizionale cultura tedesca: la pretesa di monopolizzare la conoscenza della «verità», la difficoltà a guardare il mondo con l’occhio degli altri, a confrontarsi con punti di vista diversi, l’inclinazione al moralismo. Una diagnosi fatta propria, in alcune recenti interviste, anche da Jürgen Habermas.
Il saggio di Streeck ha fatto discutere. Sulla stampa sono apparsi diversi commenti che, pur riconoscendo i grani di verità presenti nel discorso di questo studioso, ne hanno anche messo in luce i punti deboli. Il principale è stato sottolineato da Gustav Seibt, sulla «Süddeutsche Zeitung»: Streeck ragiona come se non esistesse alcun Draussen , ossia un contesto esterno alla Germania caratterizzato da altri attori e da rapide trasformazioni, all’interno del quale la cancelliera si trova ogni giorno a decidere. Ciò che sembra «opportunismo», visto nell’ottica del sistema politico nazionale, spesso è un inevitabile aggiustamento a improvvisi cambiamenti esterni: il Draussen , appunto.
La ricezione nel complesso tiepida delle posizioni di Streeck è anche dovuta al suo radicale pessimismo nei confronti dell’integrazione europea, da lui vista essenzialmente come cavallo di Troia del neocapitalismo: la tesi espressa nel suo ultimo libro, Tempo guadagnato (Feltrinelli). Per Streeck oggi la vera questione, non è se, ma come proteggere l’Europa dagli artigli della cancelliera, smantellando Schengen, Dublino e lo stesso euro.
Quale che sia il giudizio sul supposto sistema Merkel per la democrazia tedesca, lo scenario di una germanizzazione dell’Europa non è solo un’invenzione degli eredi del pensiero critico francofortese. Si tratta di un’ipotesi ben presente e molto discussa nel dibattito europeo, anche da parte di chi è a favore dell’euro e non crede ai complotti. In un recente volume dal titolo Europe’s Orphan , il giornalista Martin Sandbu, firma di punta del «Financial Times», ha ad esempio apertamente denunciato le élites tedesche per le loro pretese egemoniche (assecondate dall’opportunismo francese) e per le loro inclinazioni pedagogiche. Sandbu è convinto che l’Unione monetaria sia stata una buona idea e possa essere conservata, purché Berlino abbandoni l’idolatria della stabilità e la condanna moralistica del debito.
Già, ma cosa potrebbe indurre questa svolta culturale e politica? Il culto della stabilità (e in parte anche il moralismo) sono estremamente radicati in Germania, affondano le loro radici nella tragica esperienza di Weimar e nelle dottrine ordoliberali elaborate da alcuni padri fondatori della Repubblica federale: da Walter Eucken a Ludwig Erhard. In un recente convegno presso la Hertie School of Government di Berlino, diversi studiosi hanno sottolineato come l’ordoliberalismo (definito nel titolo come An Irritating German Idea ) si sia gradualmente trasformato in una «religione civile» per l’establishment tedesco, soprattutto in seno alla Cdu. Secondo questa tradizione di pensiero, il fine del potere pubblico è quello di imbrigliare società e politica tramite le regole di mercato e la disciplina morale. Un approccio che ricorda il teismo leibniziano, imperniato sulla metafora di quell’«orologio perfetto» che Dio si limita ad osservare, dopo averlo creato. Nel sistema ordoliberale — come raccomandava Lutero — non c’è posto per i debitori: indebitarsi è «colpa» ( Schuld ). Chi dubita della presa che queste idee hanno sull’élite tedesca non ha che da leggere alcuni dei discorsi che il presidente della Bundesbank pronuncia nel suo Paese. Nel 2014, a Kronberg, Weidmann discettò di storia e menzionò i provvedimenti di amnistia adottati nel Settecento dalla Prussia, precisando, con apprezzamento, che essi escludevano «assassini e debitori».
Lo scenario della germanizzazione ovviamente non conviene agli altri Paesi Ue, sicuramente non a quelli latini. Non è per ora plausibile, tuttavia, che si formi un qualche contrappeso. La Francia ha paura dei mercati, considera conveniente restare sotto le ali protettive di Berlino fingendo di co-gestire quella relazione speciale fra le due capitali ormai visibilmente superata. La Spagna è senza governo da molti mesi e non è detto che riesca a recuperare la tradizionale stabilità politica. L’Italia si sta dando molto da fare. Ma le sue debolezze economiche e il suo scarso capitale reputazionale (basta leggere il penultimo numero dell’«Economist») le impediscono di giocare in prima fila. Non resta che sperare nelle dinamiche del Draussen . Cioè che le sfide esterne alla Ue (a cominciare da quelle relative alla sicurezza) inducano la cancelliera e il suo «sistema» a perseguire l’unica strategia che consente oggi all’Unione di consolidarsi e, prima ancora, di sopravvivere: un’autentica europeizzazione, il più possibile depurata dalle pulsioni germanizzanti.