Corriere La Lettura 22.5.16
La mediterraneizzazione del mondo
Non
c’è un solo Mare Nostrum: ogni continente ha il suo, dal Golfo del
Messico al bacino sino-malese. E in questi contesti, così fitti di
relazioni, si innescano dinamiche geopolitiche ed economiche che
anticipano le logiche della globalizzazione
di Franco Farinelli
È
un fatto a suo modo consolatorio che il vecchio gioco delle capitali,
in cui per molti si riassume l’intero sapere relativo alla geografia,
abbia ancora senso, avvii ancora a comprendere come il mondo funziona. A
differenza di quanto accade nell’Europa settentrionale (si pensi a
Londra, Stoccolma, Helsinki, Oslo, Riga tra le altre) nel nostro
Mediterraneo i capoluoghi nazionali non sono quasi mai sul mare, ad
eccezione di Algeri, Beirut, Tunisi e Tripoli, promosse come esito della
loro passata funzione coloniale.
La logica territoriale
mediterranea obbedisce evidentemente a un modello diverso se non opposto
rispetto a quello che vale per il resto dei continenti. E proprio tale
contrasto apre uno spiraglio che consente di gettare uno sguardo sulla
natura della globalizzazione. Va subito precisato: quasi tutti i
continenti (ad eccezione almeno per il momento di quelli polari) hanno
il proprio Mediterraneo, una grande ingolfatura oceanica che agisce da
sinapsi tra le grandi masse emerse, un vero e proprio insieme di
«pianure liquide che comunicano per via di porte più o meno larghe»,
come Fernand Braudel definiva il Mare Nostrum dei Romani, il
Mediterraneo euro-africano. Ma esiste anche il «Mediterraneo americano»,
costituito dal Golfo del Messico e dal Mar dei Caraibi, così come
esiste un «Mediterraneo sino-malese» composto dal Mar Cinese meridionale
e orientale e dal Mar Giallo e dai mari indonesiani e filippini.
Nel
complesso si tratta di una vera e propria cintura estesa a cavallo del
Tropico del Cancro, tripartita in corridoi di circa 4 mila chilometri di
lunghezza e di circa 1.200 chilometri in corrispondenza della loro
massima larghezza. E le cui analogie dal punto di vista della rendita di
posizione territoriale a scala planetaria, del ruolo economico e della
struttura politica risultano, da un continente all’altro, troppo
coerenti e puntuali per essere casuali.
Facciamo l’esempio del
nostro Mediterraneo, del nostro Paese e del nostro continente. Nel 1957
tre processi presero all’unisono avvio: in Europa nacque la Comunità
Economica, in Italia fu varata la legge 634 per l’industrializzazione
del Mezzogiorno e Cosa Nostra decise di fare della Sicilia la base dello
smercio dell’eroina in Europa. Tre atti di tre differenti soggetti in
varia misura tra loro antagonisti e che operavano a differente scala, ma
determinati dall’identica necessità: far fronte alla nuova
articolazione fondata sull’imbricazione dello spazio economico nazionale
con quello internazionale e mondiale.
L’avvento della Cee segnò
l’avvio del coordinamento delle politiche economiche statali all’interno
di un quadro sopranazionale. L’industrializzazione del Meridione, che
avrebbe dovuto favorire le piccole e medie imprese, finì invece per
generare la proliferazione dei grandi impianti a ciclo integrato
dell’industria di base, attratti dalla possibilità di superprofitti
dovuti al basso costo della manodopera, ma programmaticamente privi di
qualsiasi reale connessione con le economie e le culture locali, e
invece saldamente inseriti nello specifico spazio multinazionale che
allora nasceva. Al contrario, proprio su tale saldatura si basò il
pervasivo e capillare carattere dell’economia illegale, in grado sin da
allora di mantenere il contatto tra i nuovi flussi (prima di natura
materiale e poi immateriale) e l’ambito della riproduzione della vita
sociale.
In termini più generali: furono proprio i portatori delle
logiche extrastatali a cogliere, in anticipo sul loro competitore
istituzionale, la natura dello spazio informazionale — come oggi si usa
definire l’ambito che risulta dall’applicazione della telematica e della
cibernetica — e a modellare le proprie strategie in riferimento ad
esso. E ciò perché l’avvento di tale spazio, mettendo in crisi
l’ordinamento territoriale moderno, reintegrò la preminenza
dell’archetipico assetto mediterraneo, che altri e non lo Stato ebbero
la capacità di mettere a frutto. Dall’installazione di raffinerie e
acciaierie in Sicilia, Puglia, Campania e Sardegna non derivò nessuno
sviluppo indotto, come invece si attendeva: se avesse incrementato la
domanda di forza lavoro, esso avrebbe automaticamente cancellato, in
forza del corrispondente aumento dei salari, ogni convenienza delle
multinazionali.
Così, mentre lo Stato assecondava la costruzione
di quelle che ben presto vennero definite «cattedrali nel deserto»,
altri soggetti economici approntavano una geometria variabile di
produzione e consumo, lavoro e capitale, management ed informazione,
attraverso una rete in grado di cambiare forma celermente e senza posa, e
soprattutto fondata sulla messa in valore delle specifiche qualità del
contesto. Cioè del luogo: la fondamentale cellula fisica e territoriale,
vale a dire politica ed economica, di ogni Mediterraneo.
Al
contrario dei soggetti multinazionali o portatori dell’economia illegale
o informale che si voglia dire, i quali da tempo pensano e agiscono
soprattutto in maniera intensiva, cioè per luoghi dunque per differenze,
lo Stato è per natura costretto invece a pensare e comportarsi in
termini estensivi cioè spaziali, vale a dire in senso opposto a quello
dei suoi concorrenti, verso i quali alla fine non resta,
paradossalmente, che cedere più o meno volentieri il passo. Quel che
infatti accomuna tutti i Mediterranei è la loro funzione di «zona
franca», di luogo dello scarto dalla norma, a partire da quella relativa
ai regolamenti fiscali e doganali, spesso in condizioni di vera e
propria extraterritorialità molto vantaggiosa per le industrie che vi si
insediano. Ma tali «territori dell’eccezione» assolvono oltre quello
industriale ben altri compiti: supportano i traffici illegali, di armi
oltre che di droga; accolgono esercizi tollerati perché limitati come i
casinò e i paradisi fiscali; sostengono strategie di controllo
attraverso la presenza di basi militari, teste di ponte, servitù d’uso;
funzionano da punta avanzata nell’ambito delle strategie di marketing
territoriale, attirando nuovi clienti all’interno dell’ambito
(deregolato prima ancora che regolato) di pertinenza statale. Ed è
proprio in tale congiuntura che l’opposizione tra la logica territoriale
del diaframma mediterraneo e l’assetto continentale torna oggi a
manifestarsi, a tutto vantaggio della prima.
Quel che sui
continenti appare come l’incipiente effetto della pressione della
globalizzazione sulla sintassi statale, nei Paesi mediterranei risulta
invece nativo e originario. Ad esempio la progressiva diminuzione della
taglia degli Stati stessi: si pensi all’esito del crollo del blocco
comunista. Oppure la crescente natura alveolare della loro grammatica
interna: si pensi alle spinte autonomistiche e indipendentistiche in
Europa, Africa e Asia, da riferirsi alla tardiva e imperfetta
centralizzazione degli Stati. Si aggiunga la generale trasformazione in
senso transazionale, se non immateriale, di tutte le economie. Oppure il
progressivo riconoscimento, anch’esso generale, del valore delle
specifiche, locali capacità di manipolazione simbolica a scapito delle
attività materialmente produttive.
Narra Polibio che, di ritorno
da Roma, l’ambasciatore di Rodi terminò di informare i propri
concittadini della mancata concessione a importare legname dalla
Macedonia con queste parole: «È la nostra rovina; ma possiamo ancora
conservare la nostra fama di essere il popolo più civile di tutto il
Mediterraneo». L’attuale globalizzazione sembra insomma assumere, per un
verso decisivo, le forme e le movenze di una specie di
mediterraneizzazione, di un’avanzata del modello territoriale
mediterraneo come contraccolpo alla crisi dell’architettura statale del
mondo moderno, sempre più sorretto da una specie di «antimondo» fin qui
concepito e tollerato come semplice retrobottega. Nient’altro che
un’ipotesi per cercare di capire per tempo l’ibrido nuovo che avanza: la
«selvaggia e nuova terra» cui, come Alice nel Paese delle Meraviglie,
noi stessi crederemo «soltanto a metà» quel che vedremo.