Corriere La Lettura 1.5.16
Il bonapartismo è ancora qui
L’Europa non è al sicuro, la democrazia è un’acquisizione recente
Ágnes Heller parla di diritti, migranti e islam: ci salverà Berlino
intervista di Danilo Taino
Ai
tempi del nonno di Ágnes Heller, «in Bosnia i cristiani andavano dai
vicini musulmani a fumare; e i musulmani dai vicini cristiani a bere
vino». La filosofa ungherese, che il 12 maggio compirà 87 anni, lo
racconta per dire che non è sempre stato come oggi, in Europa.
Nell’impero asburgico, popoli ed etnie vivevano fianco a fianco. Poi,
però, tutto finì comunque in tragedia. È che «il mondo è sempre stato un
posto pericoloso, chi pensa il contrario non ha mai letto un libro di
storia», dice.
La casa di Budapest della signora Heller ha un
largo terrazzo sul Danubio, nel lato di Pest: di fronte, sulla sponda di
Buda, l’università tecnica e il museo di Storia naturale. È una mattina
di sole. Nel pomeriggio andrà al funerale di Imre Kertész, scrittore e
premio Nobel, morto il 31 marzo e seppellito venerdì 22 aprile. Prima,
si siede a un tavolo tondo colmo di libri e di fogli per questa
intervista, nella quale intravede un futuro buono per i Paesi
anglosassoni, incerto per l’Europa.
Sembra che nel mondo ci sia
desiderio di uomini forti: Putin in Russia, Erdogan in Turchia, Al-Sisi
in Egitto, Orbán qui in Ungheria, Xi Jinping in Cina, Trump in America.
«A
parte il caso di Trump, uomini forti ci sono sempre stati in questi
Paesi, niente di nuovo. Anche in Europa ce n’erano, ora non più. C’è una
donna forte in Germania, ma è profondamente democratica».
La democrazia sembra avere un problema, però. Dopo la caduta dell’Unione Sovietica si espandeva. Ora è in ritirata.
«Era
un’illusione che la democrazia avanzasse. Cambiano i modi in cui il
potere si manifesta, ma la sostanza tende a restare uguale».
Non vede una crisi della democrazia, nel mondo?
«Gli
anglosassoni vivono nella democrazia e continueranno a viverci. Per
loro la democrazia e i diritti civili sono fondati nella costituzione,
non nello Stato. La crisi è in Europa, dove la democrazia non è una
tradizione, dove ancora oggi il bonapartismo non è scomparso. Non
possiamo dimenticare che per Paesi come la Spagna, il Portogallo, la
Grecia la democrazia è un fatto degli scorsi 40 anni. Anche in Italia e
in Germania è relativamente nuova, per non dire dell’Europa dell’Est. Il
ruolo del costituzionalismo si vede bene nell’approccio agli
immigrati».
In che senso?
«Integrazione non significa avere
tutti gli stessi vestiti o dire tutti le stesse preghiere. Significa
semplicemente rispetto delle leggi. Che non c’è religione che superi la
legge. E che tutti gli ospiti devono rispettare le regole della casa:
mantenere le proprie tradizioni nella legge. In America e in Australia
succede. In Europa no, perché il costituzionalismo è più debole. In
Francia una ragazza non può andare a scuola con il chador. In America
sì; però deve obbedire all’insegnante. È fondamentale che al centro ci
sia la legge. Poi, il chador o la croce non sono un problema dello
Stato. Sì, sono liberale: non dobbiamo avere paura delle culture
diverse».
Torniamo a Trump. Anche in America sembra esserci voglia di un uomo forte.
«Trump
è un peronista e su quella base mobilita le masse. Ma non diventerà
presidente. Quello che è interessante negli Stati Uniti è che molta
gente è insoddisfatta e per questo sostiene Trump o un ebreo socialista
come Sanders. Perché non riconosce più l’establishment. È la prima volta
che in America c’è una sfiducia così forte nell’establishment. Ma non è
una crisi politica, è una crisi economica. Abituati a credere nelle
possibilità infinite, gli americani sono di fronte a una mobilità che
era fondata sull’istruzione e ora si è molto ridotta. Perché
l’istruzione costa troppo. Ma in discussione non è la democrazia.
L’America non abbandonerà la democrazia, non ha una tradizione
bonapartista. Lo stesso vale per la Gran Bretagna. In Europa, invece,
tutto è possibile. Non vedo un continente dominato dall’islamismo, ma
una vittoria della destra e un’Unione Europea illiberale sono
possibili».
A proposito, ha letto il romanzo di Houellebecq, «Sottomissione»?
«Sì,
è un bel libro. Ma l’ho letto come un avvertimento, non come una
previsione. Nel senso che l’islamismo è totalitario, ma non è il
pericolo maggiore che corre l’Europa, dal punto di vista della sua
possibilità di accettare una sottomissione. Si è già sottomessa ai
fascismi, al nazismo, al bolscevismo. Non è impossibile che si
sottometta all’islamismo, però lo ritengo improbabile. Le questioni
della razza, dello scontro di classe, del nazionalismo esistevano come
tradizione in Europa e su di esse quelle ideologie si sono sviluppate e
affermate. L’islam no, non è nella tradizione europea. Non credo che sia
un vero pericolo. Ma bene l’avvertimento di Houellebecq».
Forse, proprio per il passato fascista, nazista, bolscevico, abbiamo anticorpi contro la sottomissione.
«No,
non credo all’antidoto. Qui nell’Est europeo sappiamo bene che coloro
che si sottomisero al nazismo si sottomisero poi anche al bolscevismo».
Veniamo
alla questione dei rifugiati. Iniziamo proprio con l’Europa dell’Est,
dove il loro rifiuto sembra più forte. Cosa succede?
«Alcune
differenze tra i Paesi dell’Est europeo ci sono. Gli ungheresi ad
esempio hanno paura degli immigrati, ma non di Putin; i polacchi,
invece, hanno paura di entrambi. Diversità che dipendono da ragioni
storiche. Ma tutti questi Paesi hanno un passato comune, l’occupazione
sovietica e il paternalismo. Non hanno affrontato il loro passato
durante la guerra, non ne hanno mai discusso, non sono arrivati a dire
basta al nazionalismo. Il nazionalismo ha iniziato a imporsi sotto
l’impero asburgico, ma i popoli allora vivevano fianco a fianco. È dopo
la Prima guerra mondiale che sono emersi gli Stati nazionali,
etnicamente omogenei, che hanno negato il passato di convivenza. Ora,
questi Paesi difendono lo Stato nazionale per difendere le loro
omogeneità etniche: ritengono che se arrivano estranei perderanno i
vantaggi dello Stato nazionale. L’omogeneità etnica non è razzismo, ma
ha a che fare con esso. In questi Paesi, i governi non parlano mai di
rifugiati, ma sempre di migranti che distruggono la società e portano
una cultura parallela».
Non è solo una caratteristica dell’Est.
«No.
Tutti gli Stati nazionali tendono a parlare di culture parallele e a
temerle. In Europa l’eccezione è la Svizzera, che infatti non è uno
Stato nazionale. In Italia questo aspetto sembra essere meno forte tra
la popolazione, forse perché il vostro è uno Stato nazionale più tardo e
meno forte. Non c’è invece questione di cultura parallela in America o
in Israele. Ma da noi si è affermata un’ideologia di comodo: qui, quando
dici islam dici Parigi e Bruxelles, gli attentati. Identificare islam e
terrorismo è una concezione del tutto errata, empiricamente: gli
iraniani non si fanno esplodere, solo certi arabi lo fanno. Però è
un’identificazione che sostiene la demagogia».
Che opinione ha della cancelliera Merkel?
«Una
gran donna. Non era probabilmente del tutto cosciente della portata
della decisione di aprire le porte ai rifugiati, ma la sua è stata
un’ottima decisione. Il suo cuore è nel posto giusto. Però ha fatto
errori, non aveva un piano, probabilmente. Ma mi pare la leader migliore
in Europa. È che la Germania ha fatto una riflessione enorme sul
proprio passato e l’ha rifiutato. I tedeschi sono diventati un popolo
diverso. Il che non risolve il problema dell’Europa, perché per stare
ritti non basta un piede, ne servono almeno due: ma oggi la Francia è
attraversata da un nazionalismo di destra e di sinistra molto più forte
di quello tedesco».
Come legge le tensioni nazionaliste che crescono in tutta Europa?
«Nel
XVIII secolo si è sviluppato e ha preso piede l’universalismo,
abbracciare tutti. Nel Flauto Magico , Mozart poteva musicare la frase
riferita a Tamino, “è più di un principe, è un uomo”. Ma subito dopo
arriva la Nazione Tedesca di Fichte. Universalismo e nazionalismo sono
nati assieme e gli europei tendono a ubbidire a questa dualità. È la
ricerca di un compromesso tra i diritti dell’uomo e lo Stato.
Caratteristica europea, perché i diritti umani sono basati sullo Stato
nazionale e non sulla costituzione».
Oggi ha più senso parlare di divisione tra destra e sinistra o tra nazionalisti e globalizzati?
«Destra
e sinistra sono categorie tradizionali che ora hanno contenuti diversi,
collegati più ai modi di vita che all’economia. La destra è più per
famiglia e religione, la sinistra più per modernizzazione e piacere
della vita. Ma la questione capitalismo versus collettivismo è sparita,
l’Europa ha di fatto accettato l’americanizzazione. Quanto alla
globalizzazione, sì, la cultura è globalizzata, sia quella alta sia
quella bassa; come l’economia e la tecnologia. Ma non sono globalizzati i
modi di vita, basati sulla tradizione: non possono esserlo. Anche
nell’impero romano all’assimilazione seguì la disassimilazione. Ciò può
essere una buona cosa, le differenze non sono un male».
Non sono passi indietro?
«Il
progresso della natura umana è un’illusione dell’universalismo. È
meglio la realtà dell’illusione. Nel mondo ci sono strutture diverse,
anche strutture di omicidio di massa, masse di poveri mobilitate dalle
élite. Servono le radici delle libertà democratiche per limitarle e
prevenirle. Ma non illudiamoci di andare verso una società giusta: non
esiste la società giusta, niente è perfetto. In Europa possiamo trattare
i problemi, ma non risolverli. La vita non può essere risolta».
Un mondo di incertezze.
«Gli anglosassoni sono al sicuro. L’Europa non lo so. Ma ho fiducia nei tedeschi».