Corriere La Lettura 15.5.16
Il razzismo? Non è istintivo né tribale
Antropologia
La xenofobia non nasce da impulsi atavici ma dalle contraddizioni delle
società moderne La solidarietà all’interno di piccoli gruppi
strutturati su base familiare è un fenomeno molto diverso dall’adesione
acritica nei riguardi di grandi formazioni politiche dominate da
dinamiche di potere
Equivoci
La diffidenza verso la «diversità» non è naturale: si tratta piuttosto del prodotto di condizioni storiche ed economiche
di Adriano Favole
«Il
nazionalismo — scriveva Karl Popper — fa appello ai nostri istinti
tribali, alla passione e al nostro nostalgico desiderio di essere
sollevati dal peso della responsabilità individuale, al quale esso si
propone di sostituire una responsabilità collettiva o di gruppo». In un
momento storico in cui si innalzano nuovi muri in un’Europa scissa e
disgregata, la condanna degli «istinti tribali» torna ad essere un
argomento politico. Usato, per esempio, contro le forze neo-nazionaliste
e sostenitrici della chiusura verso i flussi migratori.
Esistono
istinti tribali? In che cosa consistono? E soprattutto: con quale gruppo
ci spingerebbero a identificarci? Termini come «impulsi» e «istinti»
mobilitano meccanismi psicologici profondi, risposte in qualche modo
programmate, un nòcciolo di natura umana universale e persistente. E
l’aggettivo «tribale» rincara la dose, evocando epoche premoderne,
atteggiamenti selvaggi e barbari. Come se ciò che sta accadendo di
questi tempi, il terrorismo, le continue stragi di migranti nel
Mediterraneo, l’uso politico della paura, il timore degli stranieri,
fosse una sorta di sopravvivenza di un remoto passato e non il prodotto
delle società moderne e contemporanee, con tutte le loro contraddizioni e
diseguaglianze.
Se non si può non condividere l’orrore per il
terrorismo e la ferma condanna di quelle forze razziste che devastano
l’Europa e l’ecumene globale, provocando danni sociali ed economici di
enorme portata, a me pare che affidare la spiegazione a supposti
«istinti tribali» presti il fianco a non poche considerazioni critiche.
In primo luogo rischiamo, in questo modo, di confondere l’empatia, la
condivisione, l’esigenza di intimità familiare e di appartenenza a un
«piccolo gruppo» (comunque esso sia formato), propria dell’essere umano,
con un’adesione acritica a «etnie», «tribù» o formazioni politiche la
cui esistenza è viceversa tutta affidata a simboli e dinamiche di
potere.
Siamo esseri empatici, ci dicono oggi la
paleoantropologia, le neuroscienze, la psicologia sociale: da un punto
di vista evolutivo siamo sempre vissuti in gruppi di condivisione e
prossimità che raramente hanno superato le 150 persone — il celebre
numero di Robin Dunbar richiamato persino per spiegare la consistenza
dei gruppi Facebook. L’esistenza di tribù, etnie, Stati e religioni
mette tuttavia in campo forze simboliche e di potere che, certo, spesso
utilizzano il lessico dell’empatia (la «madre» patria, il «sangue», il
dio «padre», la comunità di «fratelli»), ma il cui carattere
artificiale, nel senso di socialmente costruito, è del tutto evidente.
La
seconda critica che si può muovere all’idea che esistano «istinti
tribali» è che, se così fosse, il razzismo finirebbe per essere pensato
come un fatto naturale. Siamo naturalmente diffidenti nei confronti
della «diversità»? L’espressione sembra dotata di una verità
incontestabile: dopodiché il «diverso» prende forme così variegate e
mutevoli — linguistiche, religiose, biologiche, di gusti e scelte
alimentari e così via — da indurre il fondato sospetto che la
«diversità» sia tutt’altro che naturale, quanto piuttosto il prodotto di
condizioni storiche ed economiche specifiche. Lo spiegano molto bene
gli studiosi del fenomeno. Nel recente Contro il razzismo. Quattro
ragionamenti (Einaudi), l’antropologo culturale Marco Aime, il genetista
Guido Barbujani, la giurista Clelia Bartoli e il linguista Federico
Faloppa concorrono nello svelare il carattere costruito e spesso la
nascita dall’«alto» del razzismo, fomentato da ideologie e
strumentalizzazioni politiche e spesso nascosto nelle stesse pieghe
delle democrazie e delle burocrazie occidentali (e non solo ovviamente).
Il
ricorso agli «istinti tribali» è solo un segno della difficoltà che
hanno le nostre società a capire ciò che avviene nella relazione
interculturale, quando cioè persone di origine diversa si trovano a
convivere. Prodotto di una infinita creatività e di continui apporti
dall’esterno, le società umane continuano, viceversa, a essere pensate
come «frutti puri» che «impazzirebbero» al contatto con qualcosa di
diverso (vedi il libro di James Clifford, I frutti puri impazziscono ,
Bollati Boringhieri, 2010). La scarsa incidenza nel dibattito pubblico
delle scienze sociali che studiano questi fenomeni è una delle ragioni
che permettono il dilagare di quanti inducono paure verso gli stranieri,
gettando le fondamenta dei nuovi muri che alimentano gli odi
nazionalistici e impediscono a chi fugge dalle guerre e ai migranti di
raggiungere l’Europa. C’è da chiedersi al proposito se non varrebbe la
pena di lanciare una ampia campagna di educazione e formazione
interculturale, piuttosto che continuare a evocare il rafforzamento
delle strutture di sicurezza.
«Non c’è una voce che possa
raccontare tutto questo, forse soltanto quella dei sopravvissuti o di
certi poeti, o forse, più semplicemente le parole sono inutili perché il
Mediterraneo è diventato una tomba d’acqua, un posto dove nascondere
un’umanità alla deriva»: così scriveva Gianmaria Testa, cantautore e
poeta cuneese, in un libro uscito postumo, poco dopo la sua scomparsa
avvenuta il 30 marzo di quest’anno, Da questa parte del mare (Einaudi).
Molte delle canzoni di Testa, riprese nel libro, parlano di migrazioni
ed esplorano l’esperienza e le emozioni del migrare. Come Ritals , una
parola senza significato che i francesi di Marsiglia usavano per
descrivere gli italiani, giocando sul fatto che questi ultimi, anche a
distanza di anni e a volte di generazioni, proprio non ce la facevano a
pronunciare alla francese la «r» di ritals . E come Il passo e l’incanto
, racconto struggente e surreale di un immigrato che, pur ben integrato
nel tessuto di una cittadina del Nord Ovest italiano, decide di tornare
a Lampedusa per ritrovare gli occhi di una donna vista di sfuggita nel
corso di una drammatica traversata su un barcone.
Se il linguaggio
e le conoscenze attorno alle relazioni interculturali faticano a farsi
strada in ciò che resta dell’Europa, è forse ai poeti che possiamo
affidare la parola, per dissolvere una volta per tutte gli «istinti
tribali». Oppure ai «sopravvissuti», come Antoine Leiris, l’autore della
celebre lettera Non avrete il mio odio agli autori della strage del
Bataclan in cui, nel novembre scorso, ha perso sua moglie Hélène. Il
libro appena uscito di Leiris (Corbaccio - «Corriere della Sera»)
inchioda i terroristi alle loro responsabilità attraverso la poesia del
dolore e dell’assenza e attraverso la forza della vita che ha le
sembianze degli occhi del piccolo Melvil, rimasto orfano della madre: la
violenza non è un retaggio ancestrale, ma il frutto di scelte personali
e di umanità contorte che occorre provare a raddrizzare.