domenica 15 maggio 2016

Corriere La Lettura 15.5.16
35 milioni di schiavi
Denunce Il commercio di braccia prospera in tanti Paesi: Ghana, Bangladesh, Birmania, Congo
Oggi Kevin Bales: il lavoro servile nuoce anche all’ambiente
Abolirlo aiuta l’economia. E tutti possiamo contribuire
di Michele Farina

Il Protocollo Onu e il caso Italia
In vigore il giorno di Natale del 2003, nel 2006 ratificato dall’Italia, tra i primi Paesi firmatari nel 2000: è il Protocollo Onu sulla Tratta, documento sulla lotta alla schiavitù. Lo hanno sottoscritto 166 Stati ma «sono almeno 152 quelli di origine e 124 quelli di destinazione dei traffici». Da qui la giornalista Anna Pozzi parte per scrivere il crudo Mercanti di schiavi. Tratta e sfruttamento nel XXI secolo (San Paolo, pp. 215, e 14,50). Non ci sono innocenti: 82 le pagine dedicate all’Italia.

Conflitti. Nemmeno la guerra di Secessione americana segnò un’autentica emancipazione dei neri nel Sud degli Stati Uniti

Nel XX secolo. L’eliminazione del predominio coloniale dell’Occidente su gran parte del mondo è stata tutt’altro che indolore

Dei bambini di Dublar Char non si parla spesso. E basandoci su Wikipedia potremmo anche invidiarli: crescono su «una bellissima isoletta» nella regione dei Sundarbans, in Bangladesh, «famosa per i suoi panorami da favola». Ma Kevin Bales racconta un’altra storia, e così facendo forse ci fa andare di traverso anche i gamberi in salsa rosa all’ora dell’aperitivo. «Migliaia di bambini vivono come schiavi a Dublar Char e su altre bellissime isole che si affacciano sul Golfo del Bengala». Il professor Bales, americano residente in Gran Bretagna, ne ha incontrati alcuni: chi come Shumir suda e viene picchiato dai caporali nei capannoni del pesce, chi passa le giornate a maneggiare gamberetti senza un compenso, alla mercé di «imprenditori» protetti da amministratori corrotti. Cinquant’anni fa «non c’erano allevamenti di gamberi al posto delle mangrovie su quelle isole che già allora venivano menzionate nella lista dei Patrimoni dell’umanità dell’Unesco, protette dalla lontananza estrema più che dalle leggi del parco nazionale». Le mangrovie, strane piante che crescono in mare, sono grandi raccoglitrici di anidride carbonica. La loro distruzione fa male al pianeta, argomenta Bales, e va di pari passo con la permanenza della schiavitù su quelle isole.
Dagli allevamenti nel Golfo del Bengala alle miniere d’oro abusive in Ghana, dai giacimenti congolesi di tantalio (il metallo che è l’anima dei nostri smartphone) alle foreste amazzoniche, fino al granito scavato illegalmente in India (da dove i tedeschi importano a buon mercato le lapidi dei loro cimiteri): sempre affiora lo stesso legame segreto. Moderna schiavitù e disastro ambientale sono facce della stessa moneta, sfregi allo stesso pianeta. Per documentare questo legame criminale Bales, già autore di un folgorante libro dal titolo I nuovi schiavi , uscito in Italia nel 2000 da Feltrinelli, negli ultimi sette anni ha viaggiato e raccolto le storie che danno corpo a Blood and Earth , un nuovo volume pubblicato in America nel gennaio 2016 e non ancora tradotto in italiano.
Ospite al Festival èStoria che si tiene a Gorizia dal 19 al 22 maggio, questo americano dell’Oklahoma, cresciuto nell’epoca (e sotto l’influenza) delle campagne per i diritti civili dei neri, di recente trapiantato a Brighton e ora residente su un’isoletta della Manica, spiega con pacatezza che «abbiamo un motivo in più per porre fine alle moderne forme di schiavitù: la difesa dell’ambiente».
Di schiavi ne nascono sempre nuovi...
«Se fosse uno Stato unico, l’attuale sistema schiavista globale conterebbe all’incirca lo stesso numero di abitanti della California, 35 milioni di persone, e sarebbe il terzo produttore di anidride carbonica dopo Cina e Stati Uniti».
Addirittura?
«Chiamiamo ecocidio la distruzione massiva dell’ambiente naturale. La deforestazione è una componente significativa di questo processo. Ed è attuata in buona parte ricorrendo all’economia del lavoro forzato. Se il 40 per cento della deforestazione globale è basata sull’opera degli schiavi, vuol dire che la schiavitù da sola è responsabile di almeno 2,5 milioni di tonnellate di CO2 all’anno».
Ma anche se si liberassero gli schiavi, gli alberi continuerebbero a essere tagliati da uomini liberi.
«L’economia della schiavitù si fonda sullo sfruttamento e sull’illegalità. Ed è redditizia solo per i criminali, come la corruzione. Rovina l’ambiente e dunque toglie agli schiavi che riescono ad affrancarsi ogni possibilità di trovare mezzi di sostentamento. Ma senza lo sfruttamento, non sta in piedi».
Lei ha incontrato donne e bambini che vivono da schiavi sulle isole nel Golfo del Bengala, prigionieri della catena di debiti e mancati compensi. Nessuno fa nulla anche a causa della corruzione degli amministratori. E noi consumatori lontani?
«Noi siamo solo una piccola parte del problema. Credo sia sbagliato colpevolizzarci. Però possiamo adottare strategie positive. Negli Stati Uniti puoi decidere di acquistare gamberi della Louisiana. Se voi in Europa non avete la possibilità di scegliere la provenienza, potete decidere di mangiare le seppioline. Io dopo quel viaggio ho smesso di comprare gamberi. È vero che alcuni grandi importatori ora sono più attenti, dicono che vogliono introdurre ispezioni più serie. Ma per ripulire, diciamo così, i canali dell’offerta ci vogliono comunque anni. Anche se sulla carta non c’è Stato che non condanni la schiavitù».
Non ha incontrato segnali di miglioramento?
«Ce ne sono due significativi. Primo: una maggiore consapevolezza nell’opinione pubblica. Vent’anni fa mi dicevano: “Perché ti occupi di questa roba? La schiavitù è finita da un pezzo”. Ora la gente sa che esiste il problema. E in parallelo, crescono le risorse per contrastarlo. Non tanto da parte dei governi, è interessante notarlo, quanto grazie a istituzioni private, fondazioni, iniziative di miliardari come il Freedom Fund, che in pochi anni hanno portato alla liberazione di migliaia di persone».
E a livello locale?
«Bisogna sostenere quei piccoli gruppi anti-schiavitù animati da persone che in vari Paesi lavorano per i diritti umani rischiando la vita. Sono i miei eroi. I Paesi ricchi dovrebbero appoggiarli con vigore e costanza. Gli schiavi non consumano. Per questo chi lavora per liberare gli schiavi crea un “dividendo di libertà” che fa crescere anche l’economia. E lo stesso ragionamento vale per i migranti».
Ci sono Paesi che sfuggono ai radar?
«In Cina sono bravi a non mostrare quello che avviene per esempio nelle campagne. Abbiamo poche informazioni. In Birmania un paio d’anni fa il responsabile della lotta al traffico di esseri umani mi diceva: “Prima il nostro grande problema era la tratta di lavoratori e prostitute verso la Thailandia. Adesso è il traffico di donne verso la Cina: le cinesi non vogliono più sposare i contadini. Così loro comprano le mogli da noi”. Poi naturalmente c’è la Corea del Nord. Mentre stendevamo la nuova versione dell’Indice della Schiavitù Globale ci chiedevamo: e i nordcoreani dove li mettiamo? Quello è un regime di lavori forzati per tutti gli abitanti...».
Il presidente Barack Obama ha fatto abbastanza per ridurre la schiavitù nel mondo?
«Il suo bilancio è molto positivo. Alla fine, molte delle cose per cui l’attuale presidente sarà ricordato riguardano la promozione dei diritti umani. Anche nelle ultime settimane ha usato i suoi poteri straordinari per chiudere alcuni buchi legislativi che permettevano l’importazione di prodotti non slavery-free . Il predecessore di Obama, George W. Bush, su questi temi era solo parole».
Torniamo alla maledizione del gambero del Bangladesh: allora un po’ ha ragione Donald Trump, quando dice che il problema è il commercio...
«Sta scherzando? È una questione complessa e il commercio non è il colpevole. Se si fermassero le esportazioni ittiche, le donne delle isole non credo troverebbero un’altra fonte di entrate paragonabile a quella attuale, sia pure miserrima, mentre i loro uomini sono lontani e non sostengono il reddito delle famiglie. I bambini-schiavi smetterebbero di essere mangiati dalle tigri, come accade oggi quando riescono ad allontanarsi dall’inferno di lavoro? Forse. Ma più a fondo si tratta di cercare modi, compreso il boicottaggio, per dare un’occupazione dignitosa, un dividendo di libertà, ai nuovi schiavi».
E intanto, per noi consumatori: niente gamberi dei Sundarbans né tantalio del Congo...
«Credo che la prima regola del consumatore responsabile sia: non sentirsi colpevole. Dobbiamo pensarla in modo positivo, altrimenti finiamo per rifuggire completamente dal problema. Seconda regola: negli acquisti, rimpiazzare i prodotti la cui provenienza pulita non è sicura. Per esempio acquistando local. Terzo: se proprio qualcosa ci piace parecchio, rivolgiamoci al produttore chiedendo spiegazioni. Se questo diventa un movimento di massa, qualcosa cambia. E sta cambiando».
Le armi contro gli schiavisti?
«Ho letto che le guardie anti-bracconaggio di un parco del Kenya hanno fucili da cecchini e grilletto facile. È una complicata questione morale, ma quando l’ho letto confesso di aver pensato: se vale per proteggere i rinoceronti, per gli schiavi no?».