Corriere La Lettura 15.5.16
Nietzsche e Mussolini. la morale delle catene
Filosofia La riduzione di esseri umani a merce ha trovato difensori agguerriti e autorevoli fino a tempi molto recenti
di Luciano Canfora
L’esigenza
di ridurre alcuni gruppi umani in schiavitù per migliorare la
condizione di altri è ben presente nella cultura oligarchica antica e
moderna. Ne fu assertore, in pieno secolo XIX, il fior fiore dell’élite
politica sudista negli Stati Uniti d’America. Basti pensare alle Remarks
di John Calhoun (1838), principale ideologo della secessione sudista
nonché assertore del «modello ateniese a Charleston».
L’abrogazione
della schiavitù in colonia fu sancita per la prima volta dalla
Convenzione nazionale a Parigi nel febbraio del 1794, non senza
resistenze e ambiguità. Nel frattempo la Francia repubblicana aveva
quasi completamente perso il controllo delle sue colonie, per cui quella
abrogazione rimase lettera morta. L’iniziativa teneva dietro ad una
lunga e dolorosa storia di schiavismo, la cosiddetta «tratta», su cui è
uscito di recente presso il Mulino un importante volume di Salvatore
Bono: Schiavi, una storia mediterranea (secoli XVI-XIX) . La Seconda
Repubblica francese si pose daccapo il problema e lo affrontò sin da
subito (febbraio 1848) ad opera di alcuni parlamentari di diversa
ispirazione politica, il più noto dei quali fu Henri Wallon, autore di
una memorabile Histoire de l’esclavage .
Ma la pratica della
schiavitù, che l’Europa aveva trasferito nel Nuovo Mondo, appunto nel
Nuovo Mondo aveva continuato a fiorire. E anzi, era stata prospettata
come istituzione legittima in una delle bozze costituzionali formulate
al sorgere stesso degli Stati Uniti d’America. Una tale sanzione non
sarebbe stata comunque necessaria, giacché di fatto la schiavitù
sussisteva e fioriva soprattutto negli Stati del Sud dell’Unione, dove
le piantagioni di cotone erano la principale risorsa economica, e gli
schiavi la principale manodopera. La sanguinosissima guerra tra Nord e
Sud (1861-1865) fu solo in parte una resa dei conti definitiva. Basti
pensare — se ci si riferisce alla prassi concreta — che la parificazione
dei diritti tra bianchi e neri fu una battaglia degli anni Sessanta del
secolo XX, e che solo all’inizio degli anni Novanta del Novecento lo
Stato del Mississippi abrogò in modo esplicito l’istituto della
schiavitù. Chi aveva continuato a difenderlo — soprattutto la
pubblicistica di metà Ottocento — contrapponeva la dura e logorante
condizione dell’operaio di fabbrica (14 ore lavorative) alla situazione
«familiare» in cui lo schiavo delle piantagioni viveva, quasi parte
integrante, di una realtà produttivo-familiare a conduzione
paternalistica. Ed è contro la giustificazione paternalistica della
schiavitù che si era scagliato per l’appunto Wallon nella introduzione
alla sua Histoire .
Nella «civile» Europa intanto la schiavitù
trovava — all’incirca nel tempo in cui gli Stati Uniti erano dilaniati
dalla guerra (raccontata in Europa da cronisti d’eccezione come Karl
Marx) — dei difensori agguerriti sul piano teorico e perciò lontanissimi
anche dalla giustificazione paternalistica della schiavitù. Il più noto
tra tutti è Friedrich Nietzsche, i cui argomenti affascinavano, ancora
decenni dopo, Benito Mussolini, dirigente socialista e collaboratore
(1908) del «Pensiero romagnolo».
Tra le formulazioni più esplicite
di Nietzsche è nota quella contenuta nelle conferenze intitolate
Sull’avvenire delle nostre scuole (1871-1873). Qui viene ribadita la
insostituibile funzione della schiavitù in rapporto allo sviluppo della
civiltà greca: «Anche se fosse vero che i Greci furono rovinati dalla
schiavitù, molto più certa è quest’altra verità, che noi saremo rovinati
dalla mancanza di schiavitù» (edizione Kroner, I, p. 153). La novità —
commentò György Lukács — è che Nietzsche utilizza la schiavitù come
mezzo per la critica della società presente. Fa eco a Nietzsche, quasi
alla lettera, Charles Maurras: «Quanti schiavi ritroverebbero la loro
pace dentro quegli ergastoli dai quali la storia moderna li ha
stoltamente sottratti. Il disprezzo dovrebbe colpire chiunque faccia
vagire la prima concupiscenza nel cervello e nelle viscere di un
primitivo e diminuisca il privilegio che a volte questi hanno di morire
senza essere vissuti» ( Le chemin de paradis ).
In Mussolini il
disprezzo-timore per gli schiavi si polarizza sugli schiavi di età
romana in un celebre suo scritto, La filosofia della forza , in polemica
col compagno di partito, all’epoca ben più autorevole di lui nel Psi,
Claudio Treves. «La morale degli schiavi — scrive in quel saggio del
1908 il futuro Duce — finisce per avvelenare la gioia del tramonto alle
vecchie caste e i deboli trionfano e i pallidi giudei sfasciano Roma». È
sintomatico che in tutto il saggio Mussolini contrapponga Nietzsche,
col quale è in piena sintonia, a Claudio Treves.
La conclusione
della Seconda guerra mondiale, con le proclamazione solenni che ne
scaturirono e le istituzioni che allora furono poste in essere, parve
cancellare per sempre il fenomeno. Ma l’eliminazione del predominio
coloniale dell’Occidente su gran parte del mondo fu tutt’altro che
indolore. Ed oggi, inoltratici ormai nel secolo XXI, ci si para di
fronte una novità strutturale: alla antica opposizione tra modello
capitalistico e modello schiavistico, di cui s’è detto prima, è
subentrata la compenetrazione dei due modelli. Lo sfruttamento di
manodopera schiavile e semischiavile costituisce oggi un caposaldo di
ciò che tuttora conviene definire «profitto capitalistico».