Corriere La Lettura 15.5.16
L’ontologia è svizzera e vale milioni
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La scoperta di due studiosi italiani: il termine che indica la «scienza
dell’essere in quanto essere» fu coniato non in Germania nel 1613 ma
nella Confederazione sette anni prima. E oggi gli elvetici investono in
programmi di indagine filosofica nove volte quello che stanzia il nostro
Paese
di Giovanni Ventimiglia
L’italiano parlato
in Canton Ticino sorprende non poco per la presenza di termini nuovi e
del tutto incomprensibili per un italiano. Alcuni esempi: natel per dire
«cellulare», tiptop per dire «impeccabile», piccadilly al posto di
«autogrill», jacky boy invece di «decespugliatore», rüt (o rutto , sic)
per indicare il secchio della spazzatura. Interessante è il caso di
azione per dire «offerta speciale» (onde l’esilarante «patate in azione»
che una volta mi indusse a immaginare strane patate svizzere
semoventi). Il termine deriva dal tedesco Aktion ed è un esempio chiaro
di «elvetismo» ossia di lingua tedesca così come essa è parlata in
Svizzera.
Suggerisco, prima di abbandonarsi alla canzonatura dei
vicini ticinesi, di ascoltare la storia della parola «ontologia», che
designa una importante disciplina filosofica. Studi recenti, infatti,
hanno dimostrato che si tratta, come le parole appena menzionate, di un
«elvetismo», ossia in quel caso del latino parlato in Svizzera agli
inizi del XVII secolo. Fino a qualche anno fa, infatti, tutti gli studi e
i manuali erano soliti riportare l’informazione secondo cui la prima
occorrenza del termine «ontologia» fosse da rinvenire in Germania nel
1613 (precisamente nel Lexicon philosophicum di Rudolph Goclenius
pubblicato a Francoforte). Tuttavia, anche grazie ai suggerimenti di
Joseph Freedman e Jean-François Courtine, che già avevano individuato
una «pista svizzera», gli italiani Raul Corazzon (nel 2005) e Marco
Lamanna (nel 2006) hanno fatto una scoperta importante: il termine
«ontologia» è nato in Svizzera nel 1606 nel Ginnasio riformato di San
Gallo a opera del riformato Jacob Lorhardus (precisamente nel manuale
Ogdoas scholastica ). Insomma «ontologia» (un grecismo composto da logos
, discorso, e ontos , dell’essere) non è termine nato nella Grecia
antica e nemmeno in Germania, ma in Svizzera, nel latino parlato da
alcuni professori di filosofia.
Il lettore non specialista si
chiederà a questo punto giustamente che cosa mai sia questa «ontologia».
Si tratta del nome attribuito a una misteriosa «scienza dell’essere in
quanto essere» di cui parlava Aristotele nella sua Metafisica : «C’è una
scienza che considera l’essere in quanto essere e le proprietà che gli
competono in quanto tale. Essa non si identifica con nessuna delle
scienze particolari: infatti nessuna delle altre scienze considera
l’essere in quanto essere in universale ma, dopo aver delimitato una
parte di esso, ciascuna studia le caratteristiche di questa parte». La
botanica studia gli esseri vegetali, la zoologia gli esseri animali, la
biologia gli esseri viventi, mentre la «scienza dell’essere in quanto
essere» studia gli esseri e basta, ossia tutti gli esseri in generale:
una disciplina, diciamo, all inclusive .
Ora, che ne è oggi, al
tempo del dominio delle scienze e della tecnica, di questa antica forma
di sapere? Sarà scomparsa dalla scena della cultura? Nient’affatto. Data
per morta nell’Europa «continentale» per diversi anni nel XX secolo,
sorprendentemente essa conosce ai nostri giorni, soprattutto nei Paesi
di lingua inglese, una rinascita che ha dell’incredibile. Su Amazon i
libri che contengono la parola ontology sono a oggi 2.435 e la Oxford
University Press ha in catalogo 617 titoli con questa parola. Insomma,
piano con la presa in giro degli elvetismi: metti che tiptop diventa fra
qualche anno famoso in tutto il mondo, mentre «impeccabile» cade nel
dimenticatoio!
Perché mai, tuttavia, in Svizzera si sentì a un
certo punto l’esigenza di coniare un termine nuovo, visto che per
designare quella disciplina esisteva già da secoli la parola
«metafisica»? Il fatto è che, fin dai tempi di Aristotele, e poi nei
secoli appresso, il termine «metafisica» veniva utilizzato nello stesso
tempo per indicare sia la scienza all inclusive che studia tutti gli
esseri in universale sia quella che indaga la causa prima di tutti gli
esseri, ossia Dio.
Ora, nell’ordinatissima Svizzera questa
ambivalenza, suscettibile di generare una certa confusione, dovette
sembrare fuori luogo, sicché si decise di designare con il neologismo
«ontologia» la scienza che si occupa di tutti gli esseri (attuali o
anche solo pensabili). Questa scelta a sua volta porterà in seguito a
riservare il termine «metafisica» perlopiù a quella scienza, più
teologica, che tratta della Causa prima degli esseri.
La domanda
di fondo che tutti si pongono da allora, legittimamente, è però questa:
ma se l’«ontologia» non si occupa più delle realtà che stanno al di là
di quelle fisiche, come avviene anche ai nostri giorni, in che cosa si
distingue dalla «fisica»? Non sarebbe l’ontologia, alla fin fine, una
specie di fisica di serie B, meno affidabile e più aleatoria? A questa
obiezione si deve rispondere in due modi. Anzitutto: è proprio vero che
le uniche realtà non fisiche siano quelle divine? E le idee, gli ideali,
i valori, i numeri, dove li mettiamo? E quale scienza si occupa di
queste cose e, insieme, di quelle fisiche? In secondo luogo: quando non
si limita a misurare e fare esperimenti, ma utilizza termini come
«materia», «funzione», «causa», «esistenza», «elemento» e simili, la
fisica non sta forse utilizzando di fatto termini filosofici senza
essersi data la briga di definirli con precisione?
Insomma la
fisica presuppone sempre un’ontologia (o «meta-fisica») e spesso lo fa
in modo inconsapevole. Non è dunque l’ontologia a essere una scienza
aleatoria, è la fisica a essere una filosofia un po’ incosciente. O
forse si dovrebbe dire meglio: quando non dialoga con la fisica,
l’ontologia rischia di essere una fisica aleatoria; e d’altra parte,
quando non dialoga con l’ontologia, la fisica rischia di essere
un’ontologia incosciente.
Sarà — obietterà l’immancabile
uomo-con-i-piedi-per-terra — ma mentre la fisica conosce applicazioni
utilissime nella vita concreta, questa osannata «ontologia» alla fin
fine a che cosa serve? A niente, si deve rispondere. E meno male. Se
«utile» è solo ciò che risponde ai bisogni primari, come mangiare, bere e
accoppiarsi, allora l’ontologia rivendica orgogliosamente la sua
inutilità. D’altra parte inutili sono anche le poesie d’amore dedicate a
donne impossibili (o addirittura già morte) o la letteratura, che si
abbandona a narrazioni inventate, o ancora la musica e la pittura.
Eppure,
per distinguere i resti di una scimmia da quelli di un essere umano,
gli scienziati vanno alla ricerca di disegni rupestri: se vi sono tracce
di attività oziose e inutili, come la pittura, si può star certi che si
tratta di esseri umani. Perché l’uomo si distingue dagli animali
proprio perché fa cose inutili. Per questo, un Paese che investe in
ricerca anche nell’ambito delle discipline umanistiche inutili è un
Paese che investe in umanità. Lo ha fatto di recente il Fondo nazionale
svizzero per la ricerca, finanziando due giovani eccellenti ricercatori,
italiani, ennesimi cervelli in fuga, di cui uno è di nuovo l’ottimo
Marco Lamanna, per un progetto di ricerca sulla nascita dell’ontologia
in Svizzera nell’età della Riforma. Cifra stanziata dopo durissima
selezione competitiva: mezzo milione di franchi (poco meno di mezzo
milione di euro). D’altra parte la Svizzera finanzia ogni anno progetti
di ricerca in filosofia di giovani ricercatori per circa 20 milioni di
franchi (circa 18 milioni di euro) mentre in Italia siamo a circa un
nono di questa cifra (senza contare che la Svizzera conta 8 milioni di
abitanti mentre l’Italia 60).
Forse il Paese del cioccolato e
degli orologi è più consapevole dell’Italia — che pure ha dato i natali
al padre dell’ontologia, ossia a Parmenide! — di quello che Aristotele
scriveva nella Metafisica : «Tutte le altre scienze saranno più
necessarie di questa ma nessuna le sarà superiore». Forse, infine, quel
piccolo Paese che molti italiani guardano dall’alto della loro immensa
storia culturale non ha dimenticato, come ha fatto l’Italia, il valore
di una scienza che è espressione della capacità, squisitamente umana, di
pensare il tutto: «Con lo spazio — scriveva Pascal — l’universo mi
contiene e m’inghiotte come un punto, con il pensiero lo contengo io».