Corriere 9.5.16
Referendum la risposta che manca
di Antonio Polito
Ci
sono molte buone ragioni per votare sì al referendum costituzionale. La
prima delle quali è l’occasione storica che ci offre per liberarci
dell’anomalia tutta italiana di due Camere che fanno le stesse cose due
volte, eufemisticamente detta «bicameralismo perfetto». Sarebbe un
premio cui il riformismo ambisce da molto tempo. Certo, quel premio
viene con un prezzo, segnalato da molti e prestigiosi costituzionalisti.
Il Senato devitalizzato come un dente malato, invece che trasformato in
una vera e propria Camera delle Regioni; non più elettivo, composto di
consiglieri regionali, non proprio il meglio della classe politica
nostrana. E poi una procedura per la formazione delle leggi farraginosa e
destinata ad aprire conflitti. E infine un forte indebolimento
dell’autonomia legislativa delle Regioni (ammesso che questo sia un
male: c’è chi non la rimpiangerà).
Eppure, per quanto si leggano
le dotte discussioni apertesi tra sostenitori del sì e del no, è
difficile convincersi che il prezzo sia superiore al premio. È vero, ci
sono molti pasticci, e il testo che ne è venuto fuori non ha niente a
che vedere con la chiarezza cristallina di quello dei padri costituenti.
Ma spesso il meglio è nemico del bene, ed è sempre meglio del niente.
Però
la grandissima maggioranza degli elettori non decideranno in base a
questi ragionamenti, per quanto il perbenismo pubblicistico ci intimi di
votare «sul merito». Gli italiani faranno una scelta politica.
E
quando dico politica non mi riferisco a quelli che voteranno per partito
preso, a prescindere, per colpire il governo o per sostenerlo. Quella è
una minoranza di politicizzati. Tutti gli altri dovranno decidere se
approvano il tentativo di Matteo Renzi di rendere più facile il comando
del leader (oggi lui, domani chissà); di dar vita cioè non certo a un
regime, come a parti rovesciate ora paventa Berlusconi, ma a un governo
con pochi lacci e lacciuoli. Oppure se temono questo progetto, e
preferiscono mantenere in vita un sistema di controlli e condizionamenti
sul potere del leader, così che il governo non si trasformi mai in
comando. Se non su Renzi, questo voto sarà dunque certamente e
direttamente sul suo disegno politico, e senza la rete di protezione del
quorum.
E infatti, per quanto non se ne parli più, si voterà
indirettamente anche sull’Italicum, e cioè su una legge elettorale con
il premio di maggioranza (pure questa un’anomalia tutta italiana) che
può trasformare il partito che vince anche di un solo voto, qualsiasi
siano le sue reali dimensioni elettorali, in un gigante parlamentare da
340 seggi, stipando e frazionando tutte le opposizioni (che nel
tripolarismo nostrano possono rappresentare fino al 70-75%) nei restanti
290 seggi dell’unica Camera elettiva rimasta. Il finale al ballottaggio
introduce di fatto l’elezione diretta del premier in un sistema sulla
carta ancora parlamentare, dunque non dotato di tutti i necessari
contrappesi al potere del vincitore.
Se a questo si aggiunge una
certa insofferenza del premier Renzi per le opposizioni in Parlamento e
per il dissenso in generale, che si manifesta non solo in atteggiamenti e
stile di governo personale ma anche nell’aver quantomeno avallato un
frenetico trasformismo parlamentare a destra e a sinistra, si comprende
che dal punto di vista politico ci sono molte buone ragioni anche per il
no.
La campagna del premier — crediamo — dovrà prendere sul serio
quelle ragioni e provare a rimuoverle, se vuole strappare
all’opposizione o anche semplicemente spingere alle urne chi non è mosso
da conservatorismo costituzionale né da astio politico nei confronti
del governo e ciò nonostante ne diffida. Nei confronti di questo
elettorato l’argomento che si dice suggerito da Jim Messina, il guru
americano ingaggiato per la bisogna, e cioè che con la riforma si
risparmiano stipendi e senatori, è piuttosto un’aggravante, perché
sembra confermare una insofferenza nei confronti della democrazia
parlamentare. Perfino Giorgio Napolitano, il più autorevole tra i
sostenitori del sì, avvertì in Senato sette mesi fa, quando la riforma
fu approvata: «Al di là del disegno di legge in discussione bisognerà
altresì dare attenzione a tutte le preoccupazioni espresse in queste
settimane in materia di legislazione elettorale e di equilibri
costituzionali». Finora non è successo. C’è da augurarsi che prima del
referendum Renzi dia qualche risposta a queste legittime preoccupazioni,
del resto analoghe a quelle che spinsero nel 2006 molti elettori a
bocciare la riforma costituzionale di Berlusconi.