giovedì 5 maggio 2016

Corriere 5.5.16
Salò, più nera che grigia
di Corrado Stajano

L’argomento di grande rilievo e poco discusso di questo libro affronta il problema dei tanti, forse dei più, che nei momenti più difficili della vita e della storia, quelli delle scelte, decidono di stare alla finestra e aspettano in attesa di quel che succede, di come va a finire. L’ha scritto un giovane storico, Carlo Greppi: Uomini in grigio. Storie di gente comune nell’Italia della guerra civile (Feltrinelli).
Il tempo è quello dei 600 giorni della Repubblica di Salò, dall’8 settembre 1943 al 25 aprile 1945, il teatro, senza ombra di finzione, è Torino, il luogo è la caserma Lamarmora di via Asti, ai piedi della collina, sede dell’Upi, l’Ufficio politico investigativo della Gnr, la Guardia nazionale repubblicana, una delle formazioni fasciste, dove si tortura e si uccide, dove le nequizie, le indescrivibili violenze, le vendette sono di casa. Protagonisti, con il maggiore Gastone Serloreti, il comandante, sono un’infinità di personaggi, tra gli altri il federale Giuseppe Solaro, il colonnello Giovanni Cabras, don Edmondo De Amicis, un prete torturatore, nipote dello scrittore di Cuore , «Kappa Nove», pittoresca spia, cacciatore di uomini, doppiogiochista, infiltrato nelle bande partigiane e, soprattutto, un brigadiere, Antonio M., al quale l’autore affida un ruolo importante, a significare il destino, difficile da decifrare, di un piccolo uomo in un mondo più grande di lui.
Nel suo libro sofferente, I sommersi e i salvati , citato anche dall’autore, Primo Levi scrisse della «zona grigia dai contorni mal definiti, che insieme separa e congiunge i due campi dei padroni e dei servi. Possiede una struttura interna incredibilmente complicata, ed alberga in sé quanto basta per confondere il nostro bisogno di giudicare».
Questo libro ha anch’esso qualche «zona grigia». «Non sta a me», scrive l’autore, «dire quanto il campione di vicende umane presente in queste pagine sia rappresentativo del grigio, ma penso che la mia generazione debba saper guardare alle catene dei vinti».
I campioni servono ai sondaggi, non alla Storia. Se ne potrebbero però citare forse altri, di campioni di quel tempo, i 600 mila ufficiali e soldati italiani internati nei lager in Germania che dissero no alle lusinghe dei repubblichini: era sufficiente una firma per tornare in patria. Preferirono la fame, il freddo, la violenza nazifascista. Se si vuol credere ai sondaggi esiste la memoria di tante altre scelte: Nuto Revelli, alpino della divisione Tridentina, già a Nikolaevka, durante la ritirata di Russia, giurò a se stesso che avrebbe smesso per sempre la sua divisa da ufficiale di carriera e avrebbe combattuto — ciò che da partigiano farà valorosamente — contro i nazisti visti nel loro furore assassino da signori della guerra. E non ebbero dubbi i 12 della Banda Italia libera di «Giustizia e libertà», uomini di ogni professione, che subito dopo l’armistizio lasciarono Cuneo per Madonna del Colletto e combatterono per due anni partigiani in montagna.
Quel che accadde tra i muri della caserma di via Asti è talmente vergognoso, contro ogni dignità umana, come a villa Triste a Milano, come in via Tasso a Roma, da non meritare alcuna forma di dubbio giustificazionista.
Uomini in grigio è un libro cupo, oscuro, che dà angoscia perché incarna il sottosuolo dell’animo umano. Fa capire, anche se non è questo il suo intento, come lo stare alla finestra in quei momenti tragici della vita sia, al di là della paura e del coraggio, il simbolo del «particulare mio», della cancellazione delle idee, dei sentimenti, della coscienza.
Scrive Carlo Greppi che la «“zona grigia” non è una categoria da celebrare e deprecare, dal momento che lo storico non deve giudicare, ma provare a raccontare e raccontando a interpretare, rispondere ad alcuni interrogativi, o ammettere — quando è il caso — la sua inadeguatezza».
È imbarazzante questo giudizio se si pensa agli storici che proprio a Torino — Bobbio, Quazza, Venturi — non hanno fatto altro: il diritto/dovere dello storico è proprio quello di giudicare. E la sentenza su quel che fecero i repubblichini è della Storia, non soltanto della giustizia che fu manchevole.
Il maggior merito del libro di Carlo Greppi è la sua straordinaria documentazione: verbali, rapporti, istruttorie, inchieste, libri introvabili, memorie, testimonianze, ricerche faticate. Un archivio prezioso che, purtroppo, non riesce a diventare una narrazione. L’io che dovrebbe servir da guida è flebile e non serve a comporre i molti frammenti. Uomini in grigio manca di un’organica struttura, prevale il disordine, le storie si aggrovigliano, così come vengono presentate, e confondono il lettore. Occorre sottolineare anche la non esemplare e precaria cura editoriale in una materia che spesso si fa informe e lo si può verificare anche dal difficile indice.
Restano nella mente i protagonisti e i gregari, uomini neri su uno sfondo sanguinante, i carnefici, i doppiogiochisti, gli intriganti, i filibustieri, gli infami e i deboli, i colonnelli, gli agenti segreti, i piantoni, i profittatori, le spie. E con loro le vittime, gli eroi, coloro che seppero resistere, le mogli piangenti, le figlie doloranti.
Il brigadiere Antonio M. fu soltanto l’incolpevole autista del comandante o fu invece uno zelante collaboratore degli assassini? Fu responsabile dell’arresto di due capi partigiani, Carlo Pizzorno, poi fucilato, e Pierino Cerrato, deportato in un lager, o salvò veramente alcune vittime dell’Upi? (Dopo la Liberazione fu condannato a 10 anni di reclusione, ma a raccontare la sua storia, tra verità e menzogna, bisognerebbe forse risuscitare un grande scrittore del Novecento, uno come Mario Soldati).
La caserma di via Asti fu un pentolone ribollente dove la vita e la morte furono in quei due anni separate da un macabro filo sottile. Là dentro, con i carnefici, entrarono le vittime e molte non uscirono più da quelle muraglie e, con loro, altri che cercavano di salvare esistenze in pericolo, Vittorio Valletta, l’amministratore delegato della Fiat di allora, per perorare la causa e la sorte di Aurelio Peccei, dirigente dell’azienda, dal futuro illustre, uomo della Resistenza, prigioniero per quasi un anno, a un passo dall’esecuzione. E poi Mario Dal Fiume, avvocato di fiducia della Fiat, che per denaro trattò anche con successo, per la libertà di alcuni, impigliato in storie non limpide, dopo il 25 aprile finì in carcere. E il giovane Benito Bolognese, detto Balilla, agente della Polizia del popolo, arrestato dalla Gnr che misteriosamente entrava e usciva dalla caserma, anche per andare al cinema.
I più dei responsabili di quel che successe in via Asti, non certo uomini alla finestra, se la cavarono in fretta. Per la clemenza dei presidenti delle Corti d’assise straordinarie presiedute da magistrati cresciuti nel clima del fascismo, per l’amnistia del Guardasigilli Togliatti del 22 giugno 1946, per la memoria collettiva via via sempre più labile che scordò i fucilati del Martinetto, i partigiani impiccati agli alberi di corso Vinzaglio lasciati appesi per molte ore, e per le tante iniquità commesse dai fascisti nei 600 giorni di Salò.
Per dare solennità simbolica all’evento, il 25 aprile 1945, la Giunta regionale del governo del Piemonte decretò che la morte del federale di Torino Giuseppe Solaro e del colonnello Giovanni Cabras, comandante della caserma di via Asti, «condannati dal tribunale di guerra, responsabili di crimini nefandi che hanno profondamente commosso la coscienza popolare», avvenisse mediante capestro.