giovedì 5 maggio 2016

Corriere 5.5.16
Il tiro al bersaglio contro l’argine del premier
di Massimo Franco

I rapporti tra Palazzo Chigi e la magistratura si stanno ulteriormente complicando. Dopo l’arresto controverso del sindaco pd di Lodi, Matteo Renzi ha tracciato una trincea verbale ragionevole. «Chi dice che c’è un complotto» dei giudici «sbaglia»; «Chi strumentalizza contro di noi, dovrebbe guardare in casa propria»: parole riferite soprattutto agli attacchi martellanti del Movimento 5 Stelle. Il problema è che la barriera del premier promette di essere messa a dura prova dalle iniziative prese in parallelo da esponenti del Pd al Csm e nel governo con un qualche avallo.
La decisione di Giuseppe Fanfani, membro dem del Consiglio superiore della magistratura, di chiedere un’inchiesta sulle misure prese dalla Procura di Lodi, è stata bollata dall’Anm come «indebita interferenza»; e come la conferma di un Pd che oscilla tra rispetto per le inchieste, e insofferenza e sospetti verso il potere giudiziario. Poi c’è stata una mezza correzione di rotta di Fanfani, ma non aiuta la riunione di ieri al ministero della Giustizia tra i dem e un esponente del partito di Denis Verdini sulla prescrizione: in una sede di governo, dunque, non parlamentare.
L’episodio ha rilanciato le polemiche sull’ingresso nella maggioranza della pattuglia di transfughi berlusconiani. Ma a rendere l’episodio imbarazzante è stata, in particolare, la smentita iniziale del capogruppo Pd al Senato, Luigi Zanda, sulla presenza del verdiniano Ciro Falanga: presenza confermata invece dal senatore, pure del Pd, Luigi Casson. La confusione ha avuto il risultato di creare un alone opaco intorno alle trattative, forse perfino al di là del contenuto dell’intesa; e di offrire al M5S altra materia per attaccare Renzi anche nell’aula della Camera.
È stato facile, per gli uomini di Beppe Grillo, ironizzare su un vertice «con gli uomini di un plurindagato e condannato per corruzione». Nella prosa del M5S, il vecchio patto del Nazareno naufragato tra Renzi e Silvio Berlusconi ora è diventato il «Patto dei Lazzaroni» tra il premier e Verdini. Partono accuse tutte da dimostrare contro il vicesegretario Lorenzo Guerini, che è di Lodi. E la voce di chi, come il presidente del Pd Matteo Orfini, ricorda che anche Grillo è un condannato, appare flebile. Viene sovrastata dall’eco delle inchieste che toccano il partito.
È un tiro al bersaglio che sembra dimenticare le gravi responsabilità del sistema politico nel suo insieme. L’impressione è che Palazzo Chigi lo soffra più di quanto dicano le indagini: come se temesse sviluppi destinati a colpire più in alto. «Prima o poi cadrò, spero però di non cadere...», dice con autoironia il premier. E intanto guarda al referendum costituzionale dell’autunno. «A occhio, si voterà a metà ottobre», annuncia. Sa che dovrà lavorare molto per convincere quanti, come l’attore Roberto Benigni, sono inclini al «no».