Corriere 5.5.16
Il destino dell’Europa in 30 giorni
di Aldo Cazzullo
Il
giugno 2016 sarà ricordato come un mese cruciale per la storia
d’Europa. Il 23la Gran Bretagna vota per uscire dall’Ue, che
diventerebbe la sola Unione in cui si parla la lingua diuno Stato che
non ne fa parte. Ma non è questo l’unico momento decisivo.
Il 10
giugno si aprono gli Europei di calcio in Francia. La possibilità di
rinviarli o spostarli di sede, dopo gli attacchi di Parigi e di
Bruxelles, non è stata solo una diceria della rete. Il governo francese
ha tenuto duro, anche se il premier Valls ripete a ogni occasione che i
terroristi islamici torneranno a colpire. Il 13 novembre scorso si
riuscì a tenerli lontani dallo stadio dove si giocava Francia-Germania,
il derby d’Europa. Ospitare e proteggere 24 squadre nazionali e le loro
tifoserie (è la prima volta che il torneo continentale ha la stessa
dimensione dei Mondiali) richiederà uno sforzo di intelligence e
sicurezza di cui la Francia in passato non è sempre stata capace. Sarà
il primo banco di prova del coordinamento tra i sistemi informativi e di
polizia. E sarà una sfida di libertà che non si poteva declinare, ma
mette a dura prova la tenuta di un Paese già percorso da tensioni
fortissime, nel pieno di una rivolta sociale contro la legge che
liberalizza timidamente il mercato del lavoro più rigido dell’Ue,
guidato dal presidente più impopolare della Quinta Repubblica. Il 26
giugno si torna a votare in Spagna. Madrid è di fatto senza governo da
sei mesi. La classe politica ha mostrato di non possedere gli strumenti
culturali per affrontare la fine del bipartitismo che aveva segnato la
giovane democrazia spagnola.
L e trattative non hanno portato a
nulla. Gli unici partiti a stringere un patto sono stati i due che hanno
più da perdere dalle elezioni anticipate: i socialisti e i centristi di
Ciudadanos. Ma non avevano abbastanza seggi in Parlamento; e Podemos ha
rifiutato di far nascere un governo riformista. La lezione di Madrid è
che non soltanto la destra in molte nazioni è divisa tra popolari e
anti-europei; anche le sinistre sono ormai due, la populista e la
tradizionale, e non riescono a collaborare: perché una è nata per
uccidere l’altra. Il premier conservatore Rajoy, contestato ormai
apertamente dal suo ex mentore Aznar, si è seduto sulla riva del fiume
ad attendere i cadaveri dei nemici: ma la prospettiva di una campagna e
di un risultato elettorale pressoché uguali a sei mesi fa deprime
un’economia che alterna impennate e cadute repentine, e incoraggia solo i
separatisti catalani. Il giorno dopo il voto si comincerà a parlare
dello scenario che fino ad allora tutti avranno escluso: la grande
coalizione, come quella che bene o male tiene in Germania.
Giugno
sarà un mese elettorale anche in Italia. Le amministrative si annunciano
difficilissime per il governo, già scosso dal confronto con la
magistratura che ha assunto toni da 1992. Ma non è solo l’Europa latina a
vacillare. A Est dell’antica cortina di ferro, l’Europa ex sovietica ha
imboccato decisamente la via neonazionalista e xenofoba, dall’Ungheria
alla Polonia. Proprio a Cracovia — la città di Giovanni Paolo II, il
confine tra il mondo tedesco e il mondo slavo dove cent’anni fa in
questi giorni infuriava terribile il massacro della Grande Guerra — a
luglio sono attesi milioni di giovani cattolici per le Giornate mondiali
della gioventù. Un appuntamento che si annuncia di grande intensità
spirituale per la presenza di papa Francesco; ma anche foriero di rischi
per la sicurezza, che non si risolvono con i muri cari ai governi
usciti dalla notte del comunismo.
Non vengono buone notizie
neppure da quei piccoli Paesi che dovrebbero essere il sale dell’Europa,
le identità multiformi che arricchiscono quella comune. La Grecia,
com’era prevedibile, non è riuscita a rispettare le condizioni capestro
che sottoscrisse per restare nell’euro. Nell’Austria delle recinzioni al
Brennero, i candidati presidenti dei partiti di governo hanno preso
meno di due terzi dei voti conquistati dal leader dell’estrema destra.
Il Portogallo sperimenta un esecutivo anti-austerity delle sinistre.
Anche i Paesi del Nord dove la crisi morde meno — come l’Olanda della
libertà e della tolleranza, dove il razionalista Cartesio e l’ateo
Spinoza poterono stampare i loro libri, la prima a legalizzare i
matrimoni omosessuali e l’eutanasia — si segnalano per lo zelo
monetarista con cui appoggiano i falchi tedeschi, salvo contrastarne
l’apertura ai migranti.
Questo è il contesto in cui l’Europa si
prepara a festeggiare — si fa per dire — il proprio compleanno. Il 9
maggio 1950 Robert Schumann, rilanciando il piano di Jean Monnet, creava
con Adenauer e De Gasperi il primo embrione della comunità, proponendo
di mettere in comune quel carbone e quell’acciaio per cui fino a cinque
anni prima i popoli del continente si erano ferocemente combattuti. Uno
spirito che oggi si ritrova nella visione e nell’operato di Draghi e
pochi altri.
Il 9 maggio è anche il giorno successivo alla
capitolazione tedesca, alla cattura di Goering e Quisling. Non è
inutile, in questo frangente, ricordare che l’Europa è nata da una
tragedia.
Il fatto che oggi la situazione sia complessa non
significa che non possa rivelarsi propizia. L’Unione fatica a gestire
dossier comuni, come si vede sulla Siria e sulla Libia; ma ora deve
finalmente farlo, prevenire i rischi, prepararsi a reagire se qualcosa
andasse male. La Seconda guerra mondiale non è ovviamente paragonabile a
nessun evento del nostro tempo. Ma resta la regola per cui, quando c’è
da soffrire, si dà il meglio di se stessi, si appianano i contrasti
futili, si ritrova la propria anima.