Corriere 24.5.16
«Elicotteri in fuga e sangue così ho visto cadere Saigon»
di Tiziano Terzani
L
a sera calò terribile, agghiacciante su una città al colmo dello
sgomento e della paura, su migliaia e migliaia di persone che,
sentendosi in trappola, erano sicure di essere massacrate all’alba. Si
sapeva che i comunisti avevano portato in un raggio di dieci chilometri i
loro micidiali cannoni da 130. Se quelli cominciavano a sparare, Saigon
sarebbe stata come un mattatoio. Ci si aspettava che cominciassero da
un momento all’altro. Correva voce che i vietcong avevano accatastato
trecentomila colpi destinati alla capitale. Alle otto Radio Saigon,
dando le notizie della guerra non parlò più di «vietcong».
L’annunciatore disse: «Stamani i nostri fratelli dell’altra parte hanno
attaccato l’aeroporto di Tan Son Nhut... i nostri fratelli dell’altra
parte stanno ora attaccando su tutti i fronti...». C’era ancora uno
spiraglio aperto per le trattative? Il cielo era carico di nuvole. Verso
le nove cominciò a piovere. Mancava la luce elettrica e la città era
piombata in un buio cieco. Dalle vetrate del ristorante al nono piano
del Caravelle, dove giornalisti, cinesi di Hong Kong e ricchi vietnamiti
che si erano rifugiati nell’albergo cenavano eccitati e rumorosi al
lume di candela, serviti da impeccabili camerieri in giacca e farfalla
nera, si vedevano a tratti, in direzione dell’aeroporto, le fiammate
rosse di improvvise esplosioni. Si diceva che fossero squadre speciali
di sabotatori americani venuti a distruggere i caccia dell’aviazione
sudvietnamita che non erano riusciti a partire per la Thailandia e che
non dovevano cadere nelle mani delle truppe comuniste ormai vicinissime.
In quei brevi sprazzi di luce si distinguevano sul tetto
dell’ambasciata americana le sagome nere di gente che correva ricurva
sotto il rotear delle pale. L’evacuazione continuava. Per tutta la notte
il vuoto nero del cielo fu punteggiato dalle intermittenti luci rosse
di questi strani uccelli da preda che si calavano lenti sui tetti,
gettavano a tratti, per orientarsi, un lungo raggio bianco di luce dal
loro unico occhio, si posavano per quattro, cinque minuti e scivolavano
via, carichi di gente, ogni volta evitando a fatica la grande antenna
della radio sopra l’edificio della Posta e i due appuntiti campanili
della cattedrale. Saigon non lo sapeva, ma dal Comando generale mobile
delle Forze di Liberazione, situato quella notte a, nord di Bien Hoa, il
generale Tran Van Tra aveva dato alle truppe l’ordine di marciare verso
la capitale, e le varie unità, protette dall’oscurità, stavano
muovendosi per occupare le posizioni da cui al mattino avrebbero fatto
l’ultimo balzo in avanti. Alle 7.45 un elicottero verde si posò sul
tetto. Gli ultimi undici marines si buttarono nelle portiere aperte e
l’elicottero si sollevò. Lingue di fuoco uscivano dalle feritoie del
moderno edificio fortezza ormai avvolto da una nuvola nera e rosa di
fumo e gas lacrimogeni. Da una casa vicina e dal basso del viale Thong
Nhat dei soldati sudvietnamiti scaricarono la loro rabbia e i loro mitra
contro quella pancia di ferro che si alzava nel cielo grigio.
L’elicottero fece una brusca virata e lo mancarono. Il frullio delle
pale si sciolse nell’aria umida e afosa del mattino e l’elicottero fu,
in un attimo, un punto sempre più piccolo all’orizzonte. Era l’ultimo.
L’ultimo. (...) Alle 9 radio Saigon annunciò: «Cittadini, restate in
ascolto. Il presidente farà fra breve un importante discorso». Dall’alto
del Caravelle guardavo Saigon deserta, immobile, ed il tempo passava
con una lentezza esasperante. Alle 10.20 vidi il personale dell’albergo
riunirsi attorno alla radio; riconobbi la voce lenta e impacciata del
generale Minh, ma le uniche parole che capii furono quelle di un
cameriere: «C’est fini! C’est fini!», urlò verso di me. Il presidente
stava dicendo: «Io credo fermamente nella riconciliazione fra
vietnamiti. Per evitare un inutile spargimento di sangue chiedo a tutti i
soldati della Repubblica di porre fine a tutte le ostilità e di
rimanere dove si trovano. Il Comando militare è pronto a prendere
contatto con il Comando dell’esercito del Governo Provvisorio
Rivoluzionario per realizzare un cessate il fuoco. Chiedo inoltre ai
fratelli del Governo Provvisorio Rivoluzionario di cessare da parte loro
le ostilità. Siamo qui ad aspettare che i loro rappresentanti vengano
per discutere il trasferimento dei poteri nell’ordine ». Poi vidi un
poliziotto camminare dritto verso il mostruoso monumento al Milite
Ignoto di Thieu, davanti al palazzo bianco dell’Assemblea Nazionale. Lo
vidi mettersi sull’attenti, estrarre la pistola dalla fondina e spararsi
alla tempia. Rimase lì, solo, in una pozza di sangue, per alcuni
minuti. Poi un soldato su una moto si fermò, gli prese la pistola ed
andò via; un’altro gli strappò l’orologio. L’annuncio della resa sciolse
l’esercito. Le unità sudvietnamite nelle prime linee uscivano dai
fortini, dalle trincee, abbandonavano le armi pesanti e ripiegavano
verso Saigon. Quelle nelle caserme in città aprivano le porte, si
spogliavano delle uniformi ed andavano a caccia di abiti civili. Gruppi
di soldati armati fermavano le rare macchine cariche di bagagli e di
gente che ancora tentava di fuggire, facevano scendere tutti e
ripartivano sparando raffiche in aria. Altri, ormai senza fucili,
derubavano i passanti, si facevano aprire le porte delle case
minacciando di gettare delle granate che tenevano in mano con la sicura
aperta. (...) Dal momento della resa era cessato il tuonar delle
cannonate. Si sentivano solo isolate raffiche di mitra e dei colpi
secchi delle armi individuali. Poi, poco prima di mezzogiorno, si
sentirono vicini i colpi di un’arma nuova ed il brontolio di motori cui
Saigon non era abituata. «Sono carri armati!», disse qualcuno.
Dall’angolo del Caravelle vidi venire giù dalla Cattedrale, nel mezzo
della via Tu Do deserta, una grande bandiera del Fronte di Liberazione
Nazionale su una jeep americana con otto giovani in civile, i bracciali
rossi, le mani in aria, che urlavano « Gioì Phong! Giai Phong!»
(liberazione, liberazione). Erano le 12.10.