Corriere 24.5.16
I nemici di ieri. Gli alleati di oggi
di Giuseppe Sarcina
HANOI
Se quello che era il tuo nemico mortale ora ti vende le armi, vuol dire
che le cose sono davvero cambiate. Barack Obama annuncia la rimozione
totale dell’embargo imposto al Vietnam da una legge del 1984. Ma
soprattutto liquida l’ultima traccia della guerra che di fatto cominciò
il 4 agosto del 1961, quando l’allora vice presidente degli Usa, Lyndon
Johnson, volò a Saigon per assicurare «pieno appoggio» al leader del
Vietnam del Sud, Ngo Dinh Diem. Proprio in quel 4 agosto a Honolulu,
nasceva l’uomo che ieri, parlando da presidente degli Stati Uniti ad
Hanoi, la capitale del Vietnam riunificato, ha dichiarato finita l’epoca
della divisione «ideologica».
L’annuncio nella conferenza stampa
congiunta con il presidente vietnamita, Tran Dai Quang, dà concretezza
politica al viaggio del leader americano. Il disegno di Obama è tanto
ambizioso quanto complicato: costruire, facendo perno sul Vietnam, un
cordone militare ed economico che possa arginare l’espansionismo della
Cina. Già nel 2014 l’amministrazione di Washington aveva deciso di
riprendere la fornitura di attrezzature belliche non letali: un primo
passo per spezzare il monopolio della Russia che da decenni rifornisce
quasi in toto l’arsenale vietnamita.
La completa apertura era
subordinata ai «progressi» del governo comunista di Hanoi nel «campo dei
diritti umani». Secondo l’organizzazione Human Rights Watch nelle
prigioni vietnamite sono tuttora rinchiusi più di 100 dissidenti. Lo
stesso Obama, ieri, ha detto che i famosi «progressi» sono «mediocri» e
che gli Stati Uniti continueranno a premere sulle autorità vietnamite
per garantire «il diritto di espressione, la libertà di stampa»
eccetera. Ma, evidentemente, la priorità assoluta adesso è rafforzare il
legame con l’antico avversario. Il Paese indocinese si affaccia sul Mar
cinese meridionale, in cui transitano il 50% del commercio mondiale e
il 60% dell’export Usa. Ecco perché l’attivismo militare di Pechino
nella regione allarma i generali del Pentagono. La Cina, tra l’altro,
contende al Vietnam la proprietà assoluta dell’arcipelago di Spratly:
scogli insignificanti, ma che emergono da fondali ricchi di petrolio.
Ieri
il presidente degli Stati Uniti si è prodotto in un abile esercizio
diplomatico: «La decisione che abbiamo maturato sull’embargo non ha
niente a che vedere con la Cina. È un modo, invece, per rimarcare i
progressi della nostra collaborazione con il governo del Vietnam». Da
Pechino, Hua Chunying, portavoce del ministero degli Esteri, ha risposto
a tono: «L’embargo sulle armi era il risultato della guerra fredda e
non sarebbe mai dovuto esistere. Noi accogliamo con favore la
normalizzazione delle relazioni tra Vietnam e Stati Uniti».
L’alto
tasso di ipocrisia, da una parte e dall’altra, segnala quanto sia
delicato e precario l’equilibrio geoeconomico e geopolitico nel Mar
cinese meridionale. Non a caso Obama ha chiesto una contropartita negli
incontri con il presidente Quang, il primo ministro Nguyen Xuan Phuc e,
soprattutto con il segretario generale del Partito comunista, Nguyen Phu
Trong, il custode dell’ortodossia ideologica e la figura più sensibile
ai richiami della Cina.
Davanti ai giornalisti il numero uno della
Casa Bianca ha sottolineato la «disponibilità» del governo vietnamita a
consentire alla U.S. Navy un approdo più facile «nei porti» del Paese. È
probabile che Obama includa tra questi «porti» anche la Base di Cam
Ranh, collocata in una posizione formidabile nel Vietnam meridionale.
Oltre
alle armi, i commerci, gli affari. Obama e Quang si sono rassicurati a
vicenda sulla necessità di ratificare al più presto il Tpp, il «Trans
Pacific Partnership», firmato il 5 ottobre 2015 insieme con altri 10
Stati. Il Tpp esclude la Cina. Il presidente americano spera ancora di
poter superare le resistenze del Senato, in mano ai repubblicani. Specie
se il Vietnam lo approverà in fretta.