Corriere 24.5.16
Una confusione pericolosa tra referendum e comunali
di Massimo Franco
Almeno
fino alle Amministrative del 5 giugno e ai ballottaggi del 19,
qualunque speranza di moderazione nel dibattito sul referendum di
ottobre in tema di riforme appare mal riposta. I due temi si mescolano
in maniera inestricabile. E diventano parte di una campagna elettorale
dai toni fin troppo accesi, utilizzati per parlare poco dei problemi
delle città e molto dei contraccolpi politici sul governo nazionale.
Forse perché la crisi economica riduce qualunque investimento negli enti
locali, il referendum diventa, da laterale, un argomento-principe:
sebbene i candidati sindaci se ne tengano accuratamente a distanza. E
con ottime ragioni.
I contrasti percorrono trasversalmente
soprattutto il Pd e le organizzazioni vicine. Rendono conflittuale la
lettura della storia del Pci e di personaggi come Enrico Berlinguer e
Pietro Ingrao. Insomma, scompongono un’identità che sembrava condivisa e
oggi non lo è più. E fanno passare in secondo piano qualunque
riflessione sul merito delle riforme istituzionali. C’è un governo,
quello del segretario-premier Matteo Renzi. Ci sono i suoi ministri e la
sua classe dirigente, tutti schierati per il «sì». E poi c’è una
pletora di avversari, dentro e fuori dalla sinistra, con i quali finora
non esistono punti di dialogo: quasi fossero due fronti in guerra.
Affiora il rischio concreto di una delegittimazione, se non di una
demonizzazione reciproca. L’ex capo dello Stato, Giorgio Napolitano,
invoca «sobrietà» e avverte che non si può rinviare ancora. Ma viene
attaccato in quanto difensore delle riforme; e insultato dalla destra
come «puparo» di Palazzo Chigi per averle promosse e spinte finché è
stato al Quirinale. Il capogruppo del Pd al Senato, Luigi Zanda, ricorda
a Forza Italia di essere stata sostenitrice della rielezione di
Napolitano nel 2013. Dunque, «prima di attaccarlo in modo scomposto e
volgare», afferma, «un po’ di memoria non guasterebbe». Ma le sbavature
si registrano su entrambi i fronti referendari. Le accuse di usare
strumentalmente la storia della sinistra e la Costituzione rimbalzano da
una parte all’altra. Il tentativo degli avversari del governo è di
presentare come demolitori della Carta fondamentale quanti voteranno
«sì»; e suoi difensori chi dirà «no». I fautori della riforma ribattono
che difendere lo status quo significa lasciare l’Italia nella «palude»;
condannarla all’immobilismo di un sistema che non funziona; e
screditarla agli occhi dell’Europa.
Sono tutte posizioni che
spesso prescindono da un’informazione corretta sul contenuto.
L’alternativa è tra «cambio» e «conservazione», tra «libertà» e
«regime»: di fatto, una discussione ideologica. La lite nel Pd sul modo
in cui si schiereranno i partigiani dell’Anpi riflette bene questa
deriva. E infatti sta diventando surreale. La polemica è anche
emblematica, però, di un nervosismo diffuso che promette solo di
esasperare i toni. C’è da augurarsi che dopo le Amministrative si
cominci a discutere con più equilibrio, per permettere scelte non
inquinate dalla faziosità.