martedì 24 maggio 2016

Corriere 24.5.16
Qualche volta abbiamo anche cantato
«Un anno sull’Altipiano» di Emilio Lussu è la testimonianza di chi ha davvero combattuto in prima linea
Ma è anche il manifesto di una coscienza collettiva che si forma sotto il fuoco incrociato delle artiglierie
di Marco Ostoni

«I giovani di oggi, per i quali la Grande guerra è più lontana della luna, trovano in questo libro quello che i testi scolastici non dicono, quello che i professori non insegnano, quello che la televisione non propone. E nemmeno il cinema. Uomini contro (il film che Francesco Rosi ne trasse nel 1970, ndr ) non è Un anno sull’Altipiano . Un giorno a Roma, dopo aver visto il film con lui e Rosi, mentre lo accompagnavo verso piazza Adriana, mi disse come seguendo un suo pensiero: “… tu lo sai, in guerra qualche volta abbiamo anche cantato…”».
Il giudizio di Mario Rigoni Stern, contenuto nell’introduzione all’edizione Einaudi del 2000, ma soprattutto le parole pronunciate da Emilio Lussu nella conversazione con l’amico e il regista, offrono la miglior chiave di lettura del capolavoro dello scrittore e uomo politico sardo (Armungia, 4 dicembre 1890 – Roma, 5 marzo 1975) con cui il «Corriere della Sera» inaugura la sua nuova collana.
Un anno sull’Altipiano è un racconto dentro la guerra prima che sulla guerra; non è un libro a tesi, né un libro-denuncia, non contrappone posizioni e nemmeno intinge la penna nell’inchiostro dell’enfasi pacifista. Non teme di raccontare momenti di serenità personale o di cameratesca leggerezza vissuti dalle truppe nelle pause del conflitto. Non fa tutto questo perché è anzitutto una testimonianza diretta, personale, di chi la guerra l’ha combattuta, in prima linea, sul Carso e sull’Altipiano di Asiago, come ufficiale della Brigata Sassari.
Una testimonianza che non è diario, pur concentrandosi su un anno soltanto (il periodo fra il giugno del 1916 e il luglio del 1917) ma non è nemmeno romanzo.
L’autore lo dichiara in avvio quasi schermendosi per aver deciso, vent’anni dopo quei drammatici fatti — siamo nel 1937 e il libro uscirà l’anno successivo in Francia, dove Lussu era riparato nel ’29 in fuga dal confino di Lipari — di scriverne, ascoltando il suggerimento dell’amico Gaetano Salvemini: «Non alla fantasia ho fatto appello, ma alla memoria; e i miei compagni d’arme, anche attraverso qualche nome trasformato, riconosceranno facilmente uomini e fatti. Io mi sono spogliato anche della mia esperienza successiva e ho rievocato la guerra così come noi l’abbiamo realmente vissuta, con le idee e i sentimenti d’allora».
C’è un io, dunque, ma c’è soprattutto un noi. Ed è qui — nel racconto di un’esperienza umana condivisa in tutta la sua drammaticità, nell’emergere di una coscienza collettiva che si forma nel fango delle trincee, sotto il fuoco incrociato delle artiglierie e nell’impatto con l’insensatezza degli ordini di ufficiali nutriti di retorica e del tutto inadeguati al ruolo — che sta la forza della narrazione di Lussu.
Il suo non è uno sfogo personale. L’io narrante prescinde dall’esperienza successiva alla guerra (quindi dalle sue disavventure politiche) e, soprattutto, non giudica, non commenta: si «limita» a raccontare e lo fa costruendo con sapienza la storia, alternando le sequenze drammatiche con quelle più lievi, cambiando bruscamente rotta quando l’apice emotivo è raggiunto (è il caso dei quadri in cui descrive l’angosciosa attesa degli assalti), lasciando dunque al lettore ogni valutazione.
Non ha nemmeno bisogno, così, di abiurare esplicitamente alle convinzioni interventiste che, nel 1915, gli fecero preferire — lui 25enne ufficiale di complemento fresco di laurea in Giurisprudenza ma totalmente digiuno di formazione politica — il conflitto alla neutralità. Sono il nonsense della mattanza, con le azioni suicide e le fucilazioni dei disertori; sono i soldati disumanizzati dall’orrore e costretti ad abbruttirsi nell’alcol per non soccombere alla paura; sono il dolore straziato di madri, padri e fidanzate privati dei propri affetti; sono tutto questo a portare chi legge a costruirselo, chiaro, il proprio giudizio.
L’autore ci mette di suo anche lo stile, dosando i toni con una scrittura di grande qualità e varietà, esercitata negli scritti più marcatamente politici (gli interventi sui «Quaderni» di Giustizia e Libertà e il pamphlet Teoria dell’insurrezione ), ma soprattutto nei due lavori pubblicati in Francia fra il 1930 e il 1933: La Catena e Marcia su Roma e dintorni . Opere a metà fra ricostruzione storica ed esperienza personale del primo dopoguerra (Simonetta Salvestroni ha parlato di «autobiografia-storia d’Italia»); la seconda favorevolmente recensita da Eugenio Montale nel 1945, in uno scritto poi confluito in Auto da fé (1966). In queste opere Lussu affinò la capacità di trattare temi tutt’altro che lievi con il registro dell’umorismo, ora scanzonato e quasi ridanciano, ora piegato a un sarcasmo sprezzante, rivolto in primo luogo a Mussolini e all’impronta farsescamente liberticida del Fascismo, peraltro ancora lontano dal trascinare l’Italia nel gorgo del secondo conflitto mondiale.
Il fondatore del Partito Sardo d’Azione, futuro ministro e già due volte deputato (prima che il regime lo facesse decadere, lo incarcerasse e lo inviasse al confino) scrisse Un anno sull’Altipiano durante la degenza in una clinica svizzera dove era ricoverato per una malattia polmonare contratta in cella.
Nello stesso torno di tempo lavorava sul lungo racconto Il cinghiale del diavolo , ispirato a leggende ed esperienze di caccia della natia Sardegna; testo i cui echi si rintracciano anche nel capolavoro, esplicitandosi in uno degli episodi più toccanti del libro, quando il capitano Lussu, durante una ricognizione, ha l’occasione di uccidere a sangue freddo un giovane soldato austriaco mentre fuma una sigaretta in trincea, ma riscopre, in quell’istante, oltre i colori delle uniformi, il valore della fratellanza e della comune appartenenza a quell’umanità che nemmeno la guerra può cancellare. E vi rinuncia: «Il mio atto del puntare, ch’era automatico, divenne ragionato. L’indice che toccava il grilletto allentò la pressione. Pensavo, ero costretto a pensare». E ancora: «Far la guerra, per anni, significa acquistare abitudini e mentalità di guerra […] Io non vedevo un uomo, vedevo soltanto un nemico […] Questa certezza che la sua vita dipendesse dalla mia volontà, mi rese esitante. Avevo di fronte un uomo. Un uomo. Un uomo! […] Tirare a così pochi passi su un uomo... come su un cinghiale! […] Eh! Non sarai tu che ucciderai un uomo, così».