lunedì 23 maggio 2016

Corriere 23.5.16
Verdetto superficiale che incorona un comizio scontato
di Paolo Mereghetti

Ken Loach intasca la seconda Palma d’oro, dopo quella del 2006 per Il vento che accarezza l’erba , e lo fa con uno dei film più scontati e meno interessanti visti a Cannes: I, Daniel Blake è più un comizio politico che un film (lo ha confermato anche il regista col suo discorso di ringraziamento), un’intemerata ideologica che trasforma un carpentiere in un agnello sacrificale lasciato solo di fronte dell’insensibilità sociale dello Stato. Non mettiamo in dubbio che sia così per la classe operaia inglese ostaggio di governi reazionari, ma in un film sentiamo il bisogno di un linguaggio meno schematico, di una messa in scena meno ricattatoria, di una recitazione meno convenzionale. Certo, le giurie hanno spesso sorpreso per verdetti inattesi. Quest’anno a Cannes tutti (o quasi) si aspettavano un riconoscimento per il tedesco Toni Erdmann — non chi scrive, a dir la verità — o almeno per la Huppert di Elle — compreso chi scrive, questa volta — e nessuno dei due ha ricevuto l’onore di un riconoscimento. Ma anche il doppio premio all’iraniano Forushande (miglior attore a Shahab Hosseini e miglior sceneggiatura al regista Asghar Farhadi) suona strano in una giuria che ha solo sette premi a disposizione e ventuno titoli tra cui scegliere. Così come l’ex aequo al rumeno Cristian Mungiu e al francese Olivier Assayas per la regia, fa immaginare che il giurato francese Arnauld Desplechin abbia molto lottato per inventare un pari merito che pochi, visti i rispettivi film, si sarebbero immaginati. Così come sorprende il Grand Prix a Xavier Dolan per Juste la fin du monde , un film fuori tempo massimo (il testo era stato scritto nel 1990 da un autore malato di Aids che sarebbe morto di lì a cinque anni: oggi quelle angosce non esistono più e il film non nasconde i suoi anni né la sua superficialità) e che sfigura di fronte alle opere precedenti del regista. Il che conferma la scarsa conoscenza cinematografica di una giuria che non ha dato l’impressione della compattezza né dell’armonia. Verrebbe da dire che nelle loro valutazioni i giurati si sono fatti impressionare dalle qualità più superficiali: l’insolito soggetto di American Honey di Andrea Arnold (a cui mancava una forte idea di regia), la prova pauperisticamente mimetica della filippina Jaclyn Jose, l’intransigenza del personaggio (più che dell’attore) per l’iraniano Hosseini. Mentre non hanno capito prove più sottili ma forse meno appariscenti come la messa in scena di Verhoeven, la recitazione della Huppert ( Elle ) o di Adriana Ugarte ( Julieta ), l’ambizione di Puiu ( Sieranevada ), il minimalismo di Jarmusch ( Paterson ). Ma come hanno dimostrato anche le scelte nella selezione (gli indifendibili The Neon Demon , The Last Face , Ma Loute , Mal de pierres ) a Cannes la qualità dei film — e dei premi — è l’ultima delle preoccupazioni.