lunedì 23 maggio 2016

Corriere 23.5.16
L’estrema destra che sfida l’Europa
di Franco Venturini

Divisa tra un candidato di estrema destra e un ambientalista diventato bandiera di tutti gli altri, l’Austria dovrà attendere l’odierno spoglio dei voti postali per conoscere il suo nuovo presidente. E altrettanto dovrà fare una Europa con i nervi a fior di pelle, incapace sin qui di affrontare l’avanzata di quei partiti anti-comunitari e anti-migranti che a Vienna, bene che vada, avranno conquistato la metà o poco meno dei voti espressi.
Il rinvio del sollievo, se vincerà Van der Bellen, o quello dell’indignazione e della paura, se Hofer diventerà il primo presidente europeo espresso da un partito di estrema destra dalla fine della Seconda guerra mondiale, invitano a capire sin d’ora, prima che una circostanza tanto rara si sciolga nel risultato finale, che il sollievo sarebbe vano, e la paura suicida, in assenza di una presa di coscienza politica e culturale che all’Europa di oggi sembra drammaticamente fare difetto. Una vittoria di Hofer, certo, avrebbe carattere di eccezionale gravità. Per noi italiani, che non vogliamo il confine austriaco chiuso ai migranti. E anche per il resto dell’Europa, perché il Partito della Libertà, con questo nome scandalosamente paradossale, si segnalò sin dalla sua nascita negli anni Cinquanta per il rifugio offerto agli ex nazisti che non intendevano cambiare strada. Ma se l’Austria è capace di simili eccessi non avendo mai fatto seriamente i conti con il suo passato, a cosa servirebbe (come speriamo che accada) celebrare oggi la vittoria di misura di Alexander Van der Bellen mentre sappiamo che in Francia il partito più forte è il Front National?
E che la destra anti-europeista e anti islamica governa in Polonia, In Ungheria, in Finlandia, in Slovacchia, che destre simili avanzano in Olanda, che i sondaggi premiano anche quell’Alternativa per la Germania che fa scalpitare la Csu bavarese, umilia una Spd in piena crisi e minaccia così la leadership di Angela Merkel?
L’elenco non è completo, ma è più che sufficiente per chi vuole capire. Non di populismi generici e cangianti si tratta, bensì di una rivolta che cresce e che ha origini e caratteristiche precise. Se la classe media che prima era la trave portante dell’Europa oggi le volta in parte le spalle e si lascia sedurre da estremismi che dovrebbero esserle culturalmente estranei, è perché una tempesta di spaventosa potenza si è abbattuta su di lei. La crisi economica che non passa, beninteso. Ma anche una profonda crisi identitaria nutrita da una globalizzazione mal governata. Anche la rivincita dei nazionalismi che proteggevano meglio. Anche le paure che vengono dal terrorismo, dalle minacce esterne ma vicine (per alcuni la Libia, per altri la Russia). E naturalmente, quando la misura per alcuni era già colma, l’ondata migratoria, i riflessi etnici e religiosi, il rigetto del diverso, la consapevolezza che non si tratterà di un fenomeno di breve durata.
Mentre questa massa d’urto si andava formando nelle società europee con motivazioni che sarebbe miope considerare infondate, l’Europa ha dormito o si è lacerata al suo interno. Non può consolarla il fatto che Trump porti con successo nella campagna presidenziale americana alcune delle istanze che scuotono la Ue. E Jean-Claude Juncker ha torto, quando dice che una vittoria di Hofer decretata dagli elettori escluderebbe dibattito o dialogo. Non siamo più nell’Europa del 2000 che sanzionò la ben più modesta ascesa di Haider. Oggi serve una controffensiva politica e culturale dell’Europa capace di parlare a tutti gli elettori, servono nuove iniziative che possano dare nuove speranze, serve una comunicazione efficace al posto del disastro attuale, per ricordare a tutti e in ogni Paese cosa e come saremmo senza l’Europa, senza l’euro, senza quelle insopportabili direttive di Bruxelles, senza la difesa dei nostri commerci esterni, senza i generosi aiuti per le regioni meno sviluppate, senza le sovvenzioni all’agricoltura, senza quel che è stato e non è più Schengen, senza l’Erasmus, e chi sa, forse senza la pace.
L’Europa e i suoi dirigenti sono a un bivio, chiunque vinca in Austria. Possono non cambiare marcia, e allora si andrà alla disgregazione. Oppure possono reagire. Va detto, senza alcun cedimento a un ottimismo ancora ingiustificato, che qualche segnale o progetto di reazione comincia ad affacciarsi. Non in Libia, specchio per ora del disorientamento non soltanto nostro ma di tutto l’Occidente. Non in Siria. Non ancora davanti al fenomeno migratorio, perché il rifiuto opposto alla ripartizione dei rifugiati da parte di molti soci dell’Est e dell’Ovest rende indispensabile l’orrendo patto che ci espone ai ricatti di Erdogan. Ma la nuova attenzione verso l’Africa è un passo nella giusta direzione. E quando sarà passato il referendum sul Brexit, quale che ne sia l’esito, Germania e Francia promuoveranno un rilancio politico dell’Europa che dovrebbe partire da accenni di difesa comune, da diverse velocità di integrazione e di governo dell’economia, dalla presa d’atto che l’Europa, dopo troppi allargamenti, ha bisogno di rimpicciolirsi per ripartire. Tutte cose indigeste per Londra, malgrado il tifo generale per una Gran Bretagna che resti in Europa. Ma tant’è, queste saranno le nuove sfide, alle quali dovrà affiancarsi una intesa sui migranti con le buone o con le cattive, come sin qui vanamente minacciato dalla Commissione di Bruxelles.
Basterà a salvare l’Europa dai suoi figli in rivolta? Forse no. Forse non saranno conclusi i compromessi necessari, forse le ideologie finanziarie e gli interessi economici continueranno a prevalere, forse non emergeranno gli statisti che servono. E i tanti Hofer d’Europa, esistenti o potenziali, avranno via libera. Ma una grande avventura come la costruzione europea merita almeno di combattere prima di morire. Se non altro perché, a dispetto delle previsioni, potrebbe vivere e vincere.