Corriere 22.5.16
Le nuove disuguaglianze che rallentano l’Italia
di Dario Di Vico
Non
tutte le disuguaglianze sono uguali. Il dibattito sull’approfondirsi
delle distanze economiche e sociali ha in questo momento il suo focus
negli Stati Uniti anche perché al di là dell’Oceano, con i risultati
delle primarie per la conquista della Casa Bianca, risulta più evidente
il legame tra sentimenti/percezioni prevalenti nella popolazione e
spostamento dei consensi politici. Non sempre il link è così immediato e
quando si verifica favorisce sicuramente il compito degli analisti e
dei sociologi che possono fare il percorso a ritroso e da una
fenomenologia di tipo politico risalire alle motivazioni a monte e agli
slittamenti prodotti in questo o in quel segmento dell’opinione pubblica
.
È il caso per l’appunto delle riflessioni sul doppio e
sorprendente successo di Donald Trump e Bernie Sanders, visto come
effetto della centralità conquistata nell’agenda degli americani dal
tema della disuguaglianza. Ora, è sempre complicato dentro un sentimento
di rivendicazione così ampio tentare lo spezzatino, scindere le singole
componenti e differenziare la lettura indicando la prevalenza di un
tema trasversale o delle istanze di uno strato sociale, ma si può dire
che la parola d’ordine «1% contro 99%» lanciata da Occupy Wall Street è
quella che sembra aver fatto maggiormente breccia. Una su tutte. È
diventata popolare puntando il dito contro l’aprirsi di una voragine di
reddito e di patrimonio tra i pochissimi e i moltissimi e indicandola
come il principale riflesso della Grande Crisi.
Trasferendoci di
botto in Italia, oltre a registrare il pieno in libreria di saggi sulla
disuguaglianza, possiamo dire che siamo in presenza di un sentimento
analogo a quello americano? Da noi innanzitutto sembra mancare la prima
condizione: il grande avversario. Sarà perché abbiamo poche grandi
imprese, non c’è una casta sufficientemente estesa di banchieri e/o
super manager usciti dalla recessione con un’impennata dei propri
emolumenti e più in generale della propria ricchezza. Se c’è un soggetto
che ha saputo affrontare la crisi del Pil riorganizzandosi al suo
interno e incrementando le esportazioni sono le multinazionali tascabili
del made in Italy, non c’è evidenza però che questi successi abbiano
generato impennate milionarie sulle paghe dei manager di punta. Ad aver
acceso l’attenzione della stampa sono state caso mai le generose
buonuscite concesse a dirigenti che pure non hanno lasciato dietro di sé
clamorosi rimpianti oppure i super-emolumenti della dirigenza della
Popolare di Vicenza o di Veneto Banca carpiti grazie a uno scambio di
favori di impronta localistica. Pur non avendo dunque la sperequazione
salariale conquistato una sua centralità politica va comunque registrato
un dato comparato Ocse, fermo al 2010, che indica un allargamento in
Italia dell’indice di Gini — che misura la forbice dei redditi — in
linea con Regno Unito e Francia e quindi tra i più alti d’Europa.
Nel
caso italiano, dunque, non è tanto la polarizzazione estrema degli
introiti a generare una diffusa percezione di aumento delle
disuguaglianze quanto invece l’allargarsi delle già ampie differenze
territoriali tra Nord e Sud e ancor di più il drastico blocco
generazionale segnalato dall’elevata disoccupazione nella fascia d’età
dai 25 ai 34 anni. In una società come la nostra, che forse non ricorda
nemmeno più quando si è verificato l’ultimo ciclo significativo di
mobilità sociale, il mancato sbocco sul mercato del lavoro dei giovani
ingessa l’intera struttura sociale. Genera quella sensazione di
apartheid già individuata da tempo da Pietro Ichino proprio sulle
colonne di questo giornale. Di conseguenza è ovvio che molti analisti
vedano nella capacità del Movimento Cinque Stelle di occupare uno spazio
pari a circa un quarto dell’elettorato un riflesso diretto della
questione generazionale e del resto questa valutazione trova conferma
(aritmetica) nel peso decisivo del voto giovanile nella composizione dei
consensi grillini.
A stabilizzare quest’egemonia in diverse
tornate elettorali e nei sondaggi ha concorso l’incapacità degli
avversari di Cinque Stelle di competere con efficacia sul segmento
giovanile o quantomeno di tentare di fare i conti con il «mostro» della
disuguaglianza. Matteo Renzi nella campagna elettorale per le europee
del 2014 aveva direttamente conteso il voto fluttuante a Beppe Grillo,
ma allora l’agenda politica privilegiava i temi dei costi della politica
e con una strategia che è stata definita dai commentatori come
«populismo dolce» il premier riuscì a contenere e ribattere l’avanzata
del partito dei Casaleggio. Con la disuguaglianza non sta accadendo
niente di simile: vuoi per l’infinita querelle statistica sui numeri del
Jobs act vuoi per il timore di evocare un tema al quale si teme di non
saper dare risposte congrue, l’aumento delle distanze sociali viene di
fatto derubricato. È vero che nel lessico dei candidati sindaco del Pd —
l’esempio è Beppe Sala a Milano — ricorre spesso la coppia
«innovazione/inclusione»: nelle intenzioni dovrebbe essere una classica
risposta socialdemocratica davanti al palesarsi di fenomeni di
marginalità sociale, nei fatti l’inclusione è una parola/proposta che
viene compresa solo da un’audience colta e che sembra voler rassicurare
soprattutto chi la pronuncia piuttosto che chi la ascolta. Di sicuro non
ha effetti pratici, non sposta l’orientamento e tantomeno il consenso.
Resta infatti sul campo la sensazione di molti giovani, e non solo, di
essere inadeguati rispetto all’Innovazione, che finisce per presentarsi
ai loro occhi munita di una minacciosa maiuscola.
Arrivati a
questo punto bisogna però saltare per un momento dal freddo della
sociologia al caldo della comunicazione e rendersi conto di come la Rete
abbia cambiato la stessa fenomenologia del disagio. Prima gli studiosi
indicavano tra le evidenze della marginalità sociale anche la mancanza
di «voce», la difficoltà nel farsi sentire, nel riuscire a proporre
all’attenzione generale la propria condizione e le proprie
rivendicazioni. Oggi grazie alle infinite possibilità fornite dai social
network i problemi di accesso primario, di agorà, sono stati superati e
non a caso è proprio la Rete il luogo dove si può facilmente tracciare
una mappa del rancore, una continua e a volte esasperata denuncia della
disuguaglianza. Chiunque ottenga un successo è sospettato di averlo
conseguito grazie ad appoggi indebiti e comunque di aver alterato la
competizione meritocratica. Se vogliamo si è prodotta per questa via (la
Rete) una moderna forma di intermediazione sociale, molto differente
dalle classiche perché non prevede la mobilitazione fisica e la
formazione di un soggetto stabile di rappresentanza/lobby ma si limita
alla denuncia (spesso all’ingiuria) o tutt’al più organizza qualche
flash mob. La sola presenza dello sfogatoio-Rete però tende a ridefinire
comunque l’azione dei sindacati che restano a presidiare la vecchia
tutela degli insider — i contrattualizzati e i pensionati — con minore
forza d’urto rispetto a ieri. Le confederazioni intuiscono che la mappa
delle disuguaglianze attorno a loro si sta rimodulando e tentano di
produrre delle sintesi-progetto che rimangono per ora ai nastri di
partenza. Vale per la Carta dei diritti universali elaborata dalla Cgil o
per la Coalizione sociale inventata da Maurizio Landini.
Una
corrente di pensiero piuttosto ampia sia tra i politici sia tra gli
economisti sostiene che tutto si risolve con la crescita del Pil, che
dovrebbe rappresentare quel grande passepartout capace di risolvere
tutte le contraddizioni o quantomeno di metterle in fila per poterle
affrontare una dopo l’altra, comprando tempo. Purtroppo non esiste la
prova della bontà di quest’argomento perché alla recessione non sta
seguendo una ripresa degna di questo nome e nella quantità che avremmo
sperato. Senza evocare i cicli economici di una volta, che si
alternavano con una loro coerenza, avremmo comunque avuto bisogno di
crescere al 2% per attutire l’impatto della disuguaglianza e invece le
stime Istat ci parlano di un incremento totale dell’1,1% per il 2016 e
di una cifra analoga per l’anno successivo. Poca roba rispetto alla
necessità che abbiamo di «ridurre le distanze». Non sarà quindi lo
strumento Pil, almeno nelle proporzioni date, quello capace di
riassorbire le larghe contraddizioni prodotte da alcune distorsioni
strutturali della nostra società unite agli effetti perversi della
Grande Crisi. Con questi numeri l’ascensore sociale non sembra in grado
di ripartire e non c’è storytelling governativo — o di qualsiasi altra
agenzia politica — che tenga. La percezione della disuguaglianza
crescente è destinata a restare stabile se non addirittura ad aumentare e
farci i conti non vuol dire certo deviare da quel percorso di
antropologia positiva al quale chi governa, o comunque fa politica con
senso di responsabilità, deve necessariamente attenersi. La società
italiana non ha più il baricentro del ceto medio e ne soffre in primo
luogo chi amministra perché vengono a mancare tradizionali punti di
riferimento e di stabilizzazione, ma ne soffre anche molto il
centrodestra che in questa notte buia sembra aver perso qualsiasi
bussola che lo riconduca alla reale geografia delle classi .
(1/continua)