sabato 21 maggio 2016

Corriere 21.5.16
Giustizia l’intreccio da evitare
di Ernesto Galli della Loggia

Quale separazione può mai esserci tra la giustizia e la politica quando l’associazione che riunisce i magistrati è divisa al proprio interno in varie correnti, ognuna con un esplicito orientamento politico che ricalca la classica distinzione Destra/Centro/Sinistra? Quando tali correnti si affrontano a scadenza fissa in competizioni elettorali su rigide basi proporzionalistiche per designare i membri del Csm? Quando sempre all’interno del Csm la loro attività più qualificante è — analogamente a quanto potrebbe fare un qualunque partito — quella di procacciare ai propri affiliati-elettori di rango questo o quel posto ritenuto utile o importante?
E quale separazione può mai esserci quando all’interno del ministero di Grazia e Giustizia i massimi quadri direttivi sono ricoperti da magistrati scelti come è ovvio dai vari ministri, certamente per le loro capacità ma forse anche per la loro «vicinanza» politica? O forse dovremmo pensare che il capogabinetto di un ministro, ad esempio, o il responsabile di una Direzione generale strategica vengano nominati solo per il loro curriculum professionale?
Attenzione: con quanto detto finora non voglio sostenere che curriculum e capacità professionali non contino nulla. Contano, ma nella grande maggioranza dei casi da soli non bastano. Ciò che fa la differenza, alla fine, per esempio nelle nomine deliberate dal Csm, è sempre l’orientamento politico (pur nell’ovvio e molto italiano gioco sotterraneo delle alleanze trasversali).
I n Italia, dunque, esistono giudici di destra, di centro e di sinistra. Non è un’insinuazione maliziosa: è la constatazione di un fenomeno che è divenuto inevitabile, mi pare, nel momento in cui si è deciso, come ha deciso la Costituzione, che la magistratura si «autogovernasse». Cioè che esprimesse al proprio interno un «governo». Il quale governo davvero non si vede come diavolo potrebbe mai formarsi, essendo designato dal basso e rispettando le regole del gioco democratico, se non sulla base di un orientamento politico delle varie candidature.
Ma stando così le cose si presentano con tutta evidenza due nodi di problemi che riguardano in particolare la giustizia penale.
Il primo: dal momento che in un gran numero di casi accertare la natura di un reato e le circostanze in cui è stato commesso implica una valutazione in cui entrano fortemente in ballo criteri culturali, ideali, psicologici, come fa un cittadino (un cittadino qualunque ma soprattutto un cittadino con una rilevante immagine ed attività pubbliche) ad essere ragionevolmente sicuro dell’imparzialità di un giudice le cui opinioni, lungi dall’esser protette da un «velo d’ignoranza», sono viceversa note e conclamate e magari opposte alle sue? C’è poco da fare o da discettare: non ne può essere sicuro. Ciò che, come si capisce, è particolarmente grave nel caso della magistratura inquirente (l’ufficio del pubblico ministero) titolare dell’azione penale.
Il secondo nodo di problemi può essere illustrato con questa domanda: se un magistrato non è stato designato al posto cui ambiva e a cui aveva titolo perché questo è stato assegnato ad un altro suo collega, prescelto dalla maggioranza politico-correntizia di cui egli non fa parte, in che senso può dirsi che il meccanismo ha tutelato la sua «indipendenza», cioè la sua libertà d’opinione? A ogni evidenza appare esattamente il contrario: egli è stato penalizzato per avere opinioni diverse da quella della maggioranza padrona delle nomine. Da qui un quesito non proprio irrilevante, mi pare: l’autogoverno della magistratura posto a tutela della sua indipendenza dal potere politico governativo garantisce davvero anche l’indipendenza del singolo magistrato dal potere politico che regge l’organo di autogoverno?
Una domanda rilevante, giacché nel caso si dovesse rispondere ad essa in maniera non decisamente affermativa allora si porrebbe un ulteriore quesito, e cioè: la sovranità popolare in nome della quale la giustizia è amministrata e dalla quale deriva l’autorità della legge e dei magistrati, trova una più ragionevole e congrua espressione nella maggioranza politicizzata di una corporazione quale è in fin dei conti la magistratura o in una maggioranza parlamentare eletta dal popolo e che esprime un governo? Ciò che peraltro vorrebbe dire, tuttavia, me ne rendo conto, consegnare i magistrati all’esecutivo: con i vantaggi di chiarezza che ne seguirebbero ma anche con gli ovvi, gravi pericoli.
Sono tutte questioni, quelle fin qui elencate, circa le quali meriterebbe forse discutere con spirito di verità e senza pregiudizi, specie quando si dibatte del rapporto tra politica e giustizia. Con spirito di verità e senza pregiudizi in particolare a proposito di che cosa è veramente il Consiglio superiore della magistratura, quali sono le sue logiche interne, i suoi corti circuiti, il ruolo che vi giocano le correnti. E invece, se non m’inganno, i magistrati per primi, e innanzi tutto proprio quelli che hanno una maggiore visibilità pubblica, cercano perlopiù di evitare simili argomenti. Peccato. Peccato che anche chi in teoria dovrebbe aver fatto della limpidità e della coerenza il proprio abito di vita, nella pratica, invece, adotti l’italianissimo principio che i panni sporchi si lavano in famiglia .