Corriere 20.5.16
Si allontana la tregua chiesta al pd dal premier
di Massimo Franco
A
lmeno per ora, la tregua chiesta al proprio partito da Matteo Renzi non
c’è. Anche perché tra la narrativa di Palazzo Chigi e quella della
minoranza del Pd corrono distanze vistose. È possibile che le
Amministrative di giugno andranno meno peggio del previsto per i
candidati del premier. E non si può ancora dire se il referendum di
ottobre sia destinato a far prevalere i «no» e a destabilizzare il
governo: troppo presto. Ma certe dichiarazioni mostrano una sicurezza
che potrebbe rivelarsi precaria. Quando il sottosegretario alla
presidenza del Consiglio, Luca Lotti, dichiara che «le Amministrative,
politicamente, non hanno nessuna rilevanza», usa un’iperbole. Ma sembra
anche mettere le mani avanti: come se perfino a Palazzo Chigi
prendessero con le molle i sondaggi che danno un Pd in buona salute. Non
c’è nessun automatismo tra risultati delle elezioni locali e durata di
un governo. Eppure, una sconfitta in alcune grandi città indebolirebbe
anche l’esecutivo. E fa discutere la tendenza a «saltare» il 5 giugno,
concentrandosi sul referendum.
L’ex capogruppo Roberto Speranza
sostiene che sovrapponendo referendum e voto «si rischia di non aiutare i
nostri candidati». E l’ex leader Pierluigi Bersani non smette di
criticare Renzi, ripetendo che «la Costituzione non può essere legata a
un governo. Se usiamo la Costituzione per dividere il Paese creiamo un
precedente pericoloso». Bersani martella anche contro l’asse
Renzi-Verdini. Ma i verdiniani replicano duri: «Se Bersani vuol cacciare
Renzi esca allo scoperto e lasci perdere noi». Eppure, è difficile che
il premier possa tornare indietro. Ha provato a correggere il tiro
dicendo che sono gli avversari a caricare di significati antirenziani il
voto in autunno: tanto che alcuni definiscono il referendum «il vero
congresso del Pd». Ma la preoccupazione per un risultato meno scontato
di qualche mese fa, induce a un supplemento di prudenza. Ancora una
volta è il fido Lotti a spersonalizzare il referendum, additando
responsabilità politiche collettive. «La faccia ce l’ha messa non solo
Renzi ma un’intera classe dirigente», avverte. «È un gruppo di persone
che si è impegnato sul referendum».
Nessuno al vertice del Pd, è
il segnale, può illudersi che in caso di bocciatura sia delegittimato
soltanto il premier. Lo schema serve a ricompattare una forza tuttora
profondamente divisa. Il fantasma della «rottamazione» della vecchia
nomenklatura danza sulle Amministrative come un incubo, perché potrebbe
portare alla diserzione dalle urne, o comunque al boicottaggio
silenzioso dei candidati renziani da parte dell’«altro Pd». Quanto al
referendum, Palazzo Chigi si sta rendendo conto che in alcuni settori
dello Stato l’insofferenza è trasversale e promette di aumentare. Ieri
il presidente dell’Anm, Piercamillo Davigo, ha ribadito come
«assolutamente lecito» che un magistrato si schieri nella campagna
referendaria.