Corriere 1.5.16
La Rivoluzione Culturale 50 anni dopo
Confessioni di una Guardia Rossa
di Guido Santevecchi
PECHINO
Wang Jiyu ha 65 anni, è alto, asciutto, abbronzato, molto gentile. Mi
aspetta davanti al cancello del centro ippico che dirige nella campagna
intorno a Pechino. Wang alleva cavalli e nel suo club vengono i ricchi
della nuova Cina. È sudato, è appena smontato da Ali, baio di razza
australiana: «Lo adoro, perché è mio». Stringe la mano con cordialità e
forza. Quella mano cinquant’anni fa impugnava un bastone insanguinato.
Wang è anche un assassino: quando era una Guardia Rossa ha ucciso un
coetaneo di un gruppo rivale.
Erano i tempi della Rivoluzione
Culturale, che secondo la storia ufficiale fu lanciata da Mao Zedong il
16 maggio 1966 per purgare il Partito comunista dagli «elementi borghesi
infiltrati nel governo e nella società». In realtà Mao voleva
riaccentrare tutti i poteri eliminando gli avversari politici come Deng
Xiaoping e Liu Shaoqi. «Bombardate il quartier generale», disse ai
giovani. I ragazzi furono entusiasti di eseguire trasformandosi in
carnefici, picchiando e torturando professori, intellettuali, borghesi,
revisionisti. Ci furono due milioni di morti in Cina tra il 1966 e il
1976; e figli che denunciarono i genitori; e umiliazioni pubbliche; e
gente che si tolse la vita non potendo più sopportare la brutalità. Quel
decennio di orrore è un tabù per il Partito comunista, contrario a ogni
commemorazione nel timore che cinquant’anni dopo si cominci a discutere
della sua legittimità: «Ci sono stati errori dovuti al deviazionismo di
sinistra, non serve più parlarne», ha ammonito pochi giorni fa la
stampa di Pechino. Secondo molti analisti la battaglia di potere
lanciata dal presidente Xi Jinping in questi ultimi mesi ricorda la
Rivoluzione Culturale, quindi è meglio tacere.
Wang Jiyu invece
vuole ricordare, vuole chiedere scusa per aver ucciso un ragazzo come
lui. Lo hanno fatto in pochissimi, quasi nessuno in pubblico.
Prima
di arrivare a chiedergli di quella mattina in cui a Pechino inseguì e
bastonò a morte un altro sedicenne abbiamo discusso di politica e di
cavalli. «Sì, l’equitazione è simbolo di diseguaglianza sociale, ma io
li allevo perché li amo, il problema è che da noi non c’è protezione per
i più poveri». «”Evviva la rivoluzione mondiale”, dicevamo allora. Poi
ci insegnarono a gridare “Evviva il presidente Mao”, il suo pensiero
aveva conquistato l’anima della gente, era diventato un nuovo imperatore
e noi ragazzi le sue Guardie Rosse». E quale pensiero in particolare
conquistò Wang, che allora aveva 15 anni? «La comune del popolo, ci
sentivamo gli eredi della causa comunista». Però siamo seduti nella
bella club house di una tenuta con decine di cavalli, una passione da
borghesi. «Sì, è contraddittorio, ma ho trovato una scusa proprio nelle
parole di Mao: aveva detto che i giovani dovevano imparare ad andare a
cavallo, usare il fucile ed esercitarsi nei grandi venti e nelle grandi
onde. E io fin da bambino sognavo un bel cavallo bianco, un buon cane da
caccia e girare per il mondo, a prescindere dagli ideali comunisti, che
allora erano supremi».
Che cosa fu la Rivoluzione Culturale? «Un disastro, un disastro immane, ha distrutto il nostro senso dell’umanità».
È
il momento di parlare di Wang Guardia Rossa e assassino. Il racconto di
quel 5 agosto 1967 è lungo, dettagliato, non vuole dimenticare nulla:
«Ero a casa a Pechino, venne un compagno e mi disse che alcuni dei
nostri erano stati picchiati da un gruppo rivale. Andammo a cercare
vendetta. Gli altri erano più numerosi, però non siamo fuggiti, per
senso dell’onore credo... uno dei nostri si prese tre coltellate, allora
siamo entrati nella palestra della nostra scuola, abbiamo raccolto
clave e bastoni della ginnastica». Muove le mani come se avesse in pugno
il bastone, nel racconto sorride come se fosse ancora il ragazzo di
allora, soddisfatto per il suo coraggio: «Colpivamo e le loro schiene
sembravano di cotone». «C’era uno molto alto e bello che mi ha preso con
una sassata. Ho gridato “ti uccido” e l’ho inseguito, quello non sapeva
fuggire né nascondersi, l’ho raggiunto sul ciglio di una scarpata e
l’ho colpito alla nuca, è volato giù come un sacco vuoto, l’ho raggiunto
e l’ho colpito ancora, alla fronte, gliel’ho spaccata, vedevo il sangue
che schizzava fuori».
«Sono tornato a casa, poco dopo i compagni
mi dissero che era morto. Telefonammo alla polizia, ma risposero che
avevano altro da fare: proprio quel 5 agosto avevano arrestato Liu
Shaoqi. Mi presero solo settimane dopo». Si sente colpevole, pensa di
aver espiato? «Sì, sono colpevole. Mi dissero che il ragazzo che avevo
ucciso era il figlio di un bravo operaio, non un borghese, non un nero.
Forse è stata una fortuna aver ammazzato il figlio di una buona famiglia
e non un borghese, altrimenti forse non mi sarebbe dispiaciuto». Dopo
pochi mesi Wang fu rilasciato, perdonato dal padre operaio di quel
ragazzo caduto come un sacco di cotone.
«La gente ora non può
capire, si pensava che fossero reati collettivi, la Rivoluzione
Culturale fu come gli ultimi anni della Dinastia Qing dopo la quale
l’impero finì. E anche il sistema oggi non può continuare senza riforme.
Quelli come me amano la terra e la patria cinese e chi ama di più
critica di più». Ci salutiamo parlando di cavalli.