Corriere 1.5.16
I confini del nostro scontento
Un progetto sui migranti per guarire le nostre paure
di Gian Antonio Stella
O
sono ciarlatani gli scienziati che studiano la demografia o sono
ciarlatani coloro che buttano lì formulette di soluzioni facili facili.
«Se il sogno di alcuni si realizzasse, e i Paesi ricchi “blindassero” le
loro frontiere», scrivono nel saggio «Tutto quello che non vi hanno mai
detto sull’immigrazione» (Laterza), Stefano Allievi e Gianpiero Dalla
Zuanna citando i dati ufficiali della Population Division delle Nazioni
Unite, «nel giro di vent’anni i loro abitanti in età lavorativa
passerebbero da 753 a 664 milioni». Ottantanove milioni in meno. Più o
meno la popolazione in età lavorativa della Germania e dell’Italia messe
insieme.
Nel nostro specifico, «nei prossimi vent’anni, per
mantenere costante la popolazione in età lavorativa (20-64), ogni anno
dovranno entrare in Italia, a saldo, 325 mila potenziali lavoratori, un
numero vicino a quelli effettivamente entrati nel ventennio precedente.
Altrimenti, nel giro di appena vent’anni i potenziali lavoratori
caleranno da 36 a 29 milioni». Con risultati, dalla produzione
industriale all’equilibrio delle pensioni, disastrosi. Vale anche per
l’Austria che vuole chiudere il Brennero: senza nuovi immigrati nel 2035
la popolazione in età 20-64 calerebbe lì del 16%: da 5,3 a 4,4 milioni.
Con quel che ne consegue. Semplice, barricarsi: ma poi? Chi vuole può
pure maledire i tempi, ma poi?
E allora, ringhierà qualcuno, «dobbiamo prenderci tutti quelli che arrivano?». Ma niente affatto.
Sarebbe
impossibile perfino se, per paradosso, lo accettassimo. Se fossero i
Paesi poveri a chiudere di colpo le loro frontiere infatti «nel giro di
vent’anni la loro popolazione in età 20-64 aumenterebbe di quasi 850
milioni di unità, ossia più di 42 milioni l’anno». Brividi.
Nessuno
ha la formula magica per risolvere questo problema epocale. Nessuno può
ricavarla dalla storia. Gli uomini si spostano, come spiega il filosofo
ed evoluzionista Telmo Pievani, «da quasi due milioni di anni». Ma mai
prima c’era stato uno tsunami demografico di questo genere.
Questo
è il nodo: se possiamo tenere i nervi saldi e prendere atto con
realismo della difficoltà di individuare qui e subito soluzioni
salvifiche, un po’ come quando la scienza brancola dubbiosa davanti a
nuovi virus, è però impossibile rassegnarci a certi andazzi. Di qua il
tamponamento quotidiano e affannoso delle sole emergenze con la
distribuzione dei profughi a questo o quell’albergatore (magari senza
scrupoli) senza un progetto di lungo respiro. Di là i barriti contro gli
immigrati in fuga dalla fame o dalle guerre con l’incitamento a fermare
l’immensa ondata stendendo reti e filo spinato. E non uno straccio di
statista che rassicuri le nostre società spaventate mostrando di essere
all’altezza della biblica sfida.
Dice un rapporto Onu che «chi
lascia un Paese più povero per uno più ricco vede in media un incremento
pari a 15 volte nel reddito e una diminuzione pari a 16 volte nella
mortalità infantile»: chiunque di noi, al loro posto, sarebbe disposto a
giocarsi la pelle per «catàr fortuna», come dicevano i nostri nonni
emigrati veneti. Anche se, Dio non voglia, ci sparassero addosso. Tanto
più sapendo che in Europa e in Italia, grazie a una rete familiare e a
un welfare che comunque garantisce quel minimo vitale altrove
impensabile, c’è ancora spazio per chi è pronto a fare i «ddd jobs», i
lavori «dirty, dangerous and demeaning» (sporchi, pericolosi e
umilianti) rifiutati da chi si aspettava di meglio.
Non basterebbe
neppure una miracolosa accelerazione nel futuro: nella California di
Google e della Apple, ricordano ancora Allievi e Dalla Zuanna, «ogni due
nuovi posti di lavoro high tech ne vengono generati cinque a bassa
professionalità: qualcuno dovrà pure stirare le camicie dei benestanti,
curare i loro giardini, prendersi cura dei loro anziani». Altro che i
corsi di formazione per baristi acrobatici.
Come ne usciamo?
Soluzioni rapide «chiavi in mano», a dispetto di tutti i demagoghi, non
ci sono. Ci vorranno tempo, pazienza, fermezza, lungimiranza. Alcune
cose tuttavia, nel caos, sono chiare. Primo punto, nessuno, se può
vivere dov’è nato, affronta le spese, le fatiche, i rischi e le
umiliazioni di certi viaggi: occorre dunque «aiutarli a casa loro» sul
serio, non con le ipocrisie, gli oboli (il G8 dell’Aquila diede
all’Africa i 13 millesimi dei fondi dati alle banche per la crisi), i
doni ai dittatori o la cooperazione internazionale degli anni Ottanta
che finì travolta dagli scandali (indimenticabili i silos veronesi
sciolti sotto il sole sudanese) dopo che Gianni De Michelis aveva
ammesso alla Camera che il 97% dei fondi al Terzo mondo finiva (spesso a
trattativa privata) ad aziende italiane che volevano commesse
all’estero.
Mai più. Meglio piuttosto cambiare le regole del
commercio internazionale che per proteggere lo status quo dell’Occidente
inchiodano i Paesi in via di sviluppo a non crescere. Citiamo Kofi
Annan: «Gli agricoltori dei Paesi poveri non devono solo competere con
le sovvenzioni ai prodotti alimentari d’esportazione, ma devono anche
superare grandi ostacoli a livello di importazione. (…) Le tariffe
doganali Ue sui prodotti della carne raggiungono punte pari all’826%.
Quanto più valore i Paesi in via di sviluppo aggiungono ai loro
prodotti, trasformandoli, tanto più aumentano i dazi». Qualche anno
dopo, la situazione non è poi diversa.
Secondo: basta coi traffici
di armamenti verso Paesi in guerra. Quanti eritrei che arrivano coi
barconi scappano da casa loro dopo aver provato sui loro villaggi e le
loro famiglie la «bontà» delle armi vendute al regime di Isaias Afewerki
anche da aziende italiane ed europee, come dimostrò l’Espresso ,
nonostante l’embargo? Pretendiamo che restino a casa loro e insieme che
si svenino a comprare le nostre armi?
Terzo: parallelamente a un
percorso accelerato per mettere gli italiani in condizione di fare più
figli sempre più indispensabili, a partire da una ripresa vera del ruolo
educativo della scuola anche su questo fronte, è urgente arrivare
finalmente alle nuove norme sulla cittadinanza. Forse ci vorranno
decenni per realizzare il sogno di Mameli («Di fonderci insieme già
l’ora suonò») allargato a tanti nuovi italiani che vogliono sentirsi
italiani, ma certo non è facile pretendere che sia un bravo cittadino
chi cittadino fatica a diventare.