Corriere 19.5.16
La luce dell’India nasce dal buio
Giorgio Montefoschi, trent’anni d’amore per il subcontinente e le sue apparenti contraddizioni
di Chiara Fenoglio
Che
cosa significa, oggi, dopo Forster o Herman Hesse, Manganelli o
Moravia, compiere un viaggio a Bombay, Calcutta, New Delhi? E ancora,
come si può letterariamente «vedere» il Kerala o Madras, nel tempo del
turismo globalizzato e low cost ? Per un verso l’India coincide ancora
con il mistero della Verità cosmica, ma essa è anche un luogo ad alta
tensione culturale da decifrare sfruttando alcune chiavi d’accesso (i
libri dei Veda , Naipaul oppure Kipling) necessarie per stabilire quei
percorsi mentali a cui il viaggiatore europeo non può rinunciare.
Ne
Il buio dell’India (Guanda) Giorgio Montefoschi oscilla continuamente
tra questi due poli e costruisce un libro che non è semplicemente il
resoconto di un viaggio: piuttosto è la narrazione di una persistenza,
di trent’anni di lunga fedeltà, di «corpo a corpo intenso e sfibrante»
con le millenarie tradizioni di un luogo superbamente altro. Altro
perché lontanissimo dall’Occidente, altro perché vi convivono modernità
incipiente e ritualità dalla forza atavica, dal cui contrasto si produce
la percezione di una «inaccessibilità» che la ragione e la pigrizia
europee tendono a eludere, a non considerare come oggetto di
interrogazione. Questa inaccessibilità è invece la domanda fondante di
tutto il libro, espressa da Montefoschi nelle forme di un metodo
conoscitivo, di una regola che vale per tutte le cose della vita, per
l’amore come per i romanzi: «Le cose che riusciamo a descrivere meglio
sono quelle che desideriamo e non possediamo».
Nel primo incontro
con l’India (datato 1987) domina la contrapposizione di vuoti e pieni,
di luci e colori che contraddicono il buio, dei rumori urbani contigui
al silenzio dei templi. L’esibizione di poveri miseri e storpi convive
con la percezione religiosa di un ondeggiare oscuro, del fluire
indistinto di materia e spirito: di fronte a tutto ciò il neofita
dell’India rimane interdetto, muto in una sorta di ottusa fissità, come
di fronte a un formicaio di cui si tentasse di razionalizzare la vita
minima. I l buio dell’India è dunque l’oscuro ondeggiare del cosmo da
cui veniamo e in cui ci perderemo, ma è altresì, e ben più tragicamente,
la miseria desolata e ineliminabile che colpisce una «popolazione di
cani randagi». La luce tropicale, accogliente, mai aggressiva, velata,
protettiva, è anche luce che sgomenta, che nasce dal buio e lo conserva
come una indelebile memoria e come destino.
La tappa più
rappresentativa è certamente Benares, dove Montefoschi (come già
Pasolini e Moravia) assiste alla cerimonia di cremazione delle salme
lungo le sponde del Gange: il fiume, il rito di purificazione, la folla,
i barcaioli e il pedaggio che occorre pagare alla guida locale, tutto
richiama un inferno dantesco dove al buio si aggiunge un odore così
pungente da produrre tuttavia una reazione del tutto dissimile dalla
fascinazione pasoliniana. Le profondità della religione indù non sono
esplorabili: nessuna esperienza diretta rende dicibile questo luogo,
nonostante i capitoli iniziali di introduzione alla filosofia orientale
tentino di offrire un’almeno parziale guida. La mistica indiana rimane
un mistero: addirittura, basta una lieve «sfasatura del pensiero», una
minima disattenzione e la rarefazione, la saggezza, la ritualità si
mutano in «una situazione che già si compone ai confini del mondo». Qui a
Benares tutto è «immobile e presente», sospeso e «avvolto in una garza
primordiale», ma sempre sul punto di svelare, dietro il rito, l’orrore
dei corpi derelitti, l’odore di carne bruciata.
Ma Benares è solo
una faccia del prisma indiano; ad essa si affianca la periferia di
Calcutta, ove negli ultimi anni è sorta la cittadella iperconnessa e
globalizzata dell’informatica e del business. Tuttavia, questo segno dei
tempi è più apparente che reale: il quadrilatero del benessere è
assediato da cumuli di rifiuti e povertà, masse di vecchi storpi e
bambini seminudi, emblemi perenni della stolidità e dell’egoismo umani. È
passato il tempo che ci tortura, scrive Montefoschi di ritorno da uno
degli ultimi viaggi, ma tutto è insistentemente uguale e immutabile.
Al
pathos pasoliniano, che riconosceva nell’India il Friuli della propria
infanzia, al razionalismo manganelliano, che ironizzava su quel luogo
«ad alto tenore di Dio», si affianca ora lo sguardo affettuoso e insieme
perplesso di Montefoschi: il suo è un libro di interrogativi, che
restano per lo più senza risposta, o rispetto ai quali si tentano
zoppicanti e imperfette ipotesi interpretative. Trent’anni di viaggi non
bastano a «capire meglio»: l’India è una sorta di abisso colmo di
contraddizioni inconciliate, uno spazio inaccessibile e sfuggente, un
modo di essere infinitamente lontano dal nostro Logos e dalla nostra
inquieta brama di felicità.