Corriere 18.5.16
L’astensionismo. È una malattia che mina le democrazie
di Marco Cianca
Susanna
Camusso lo dice con tristezza: «Nelle migliaia di assemblee che abbiamo
fatto per presentare la nostra carta dei diritti, i lavoratori non
hanno voluto sentir parlare di politica. I partiti non ci riconoscono,
accusano, e noi non li riconosciamo, non ci meritano. Non c’è di sicuro
corsa al voto, semmai c’è la corsa a non votare». Il segretario generale
della Cgil, nel presentare il libro di Bruno Ugolini sul Jobs act (Vite
ballerine, Ediesse) dà voce a quel doloroso distacco che gonfia da
sinistra il popolo dell’astensionismo.
Un fenomeno emerso con
evidenza alle regionali del 2014: in Emilia Romagna l’affluenza alle
urne crollò al 38 per cento. Lo si sapeva, era nell’aria, i dirigenti
locali del sindacato avevano lanciato l’allarme, inascoltati. Ora la
campana della disaffezione suona di nuovo. Che succederà il 5 giugno,
alle amministrative, e il 16 ottobre, al referendum sulla riforma
costituzionale? Quando i partiti si delegittimano a vicenda e anche al
proprio interno, quando tutto finisce in rissa, quando la chiamata al
voto assume i connotati di un’ordalia, se non si ha più alcuna fede
negli dei della politica, è difficile che si scenda nell’arena.
L’astensione
è crescente, continua, apparentemente inarrestabile. Il grafico sui
votanti dal 1946 al 2013, elaborato dall’Istituto Cattaneo, appare come
la curva in picchiata di un crac senza rimedio. In Italia, per la
verità, la partecipazione resta ancora una delle più alte ma l’erosione
sembra procedere in progressione geometrica. E non può più essere
esorcizzata come un’espressione di qualunquismo, riconducibile per lo
più all’area di centro-destra.
Due studiosi come Pasquale Colloca e
Dario Tuorto parlano di «smobilitazione punitiva», che per quanto
riguarda l’elettorato di centro-sinistra, compare per la prima volta
nelle elezioni del 2008, dopo la caduta del secondo governo Prodi. È
come se da allora il lutto dell’Ulivo non fosse stato elaborato e si
fosse poi intrecciato con l’antirenzismo, prolungamento,
nell’immaginario degli orfani di quell’esperienza, dell’anticraxismo e
dell’antiberlusconismo. Ha scritto Ilvo Diamanti: «Oggi l’astensione è
il voto di chi non vota. E prima votava a sinistra».
Ma il
distacco è in realtà senza confini politici, invade tutte le aree
sociali. Apatici, rancorosi, indifferenti, indignati, disgustati,
delusi, cinici, nichilisti, nostalgici, paurosi, apocalittici,
idealisti, disperati, attendisti, insofferenti. L’astensione ha mille
volti, è un moto dell’animo. Non esiste, non può esistere, un partito
dell’astensione. Troppo diverse le motivazioni, le idee, le culture, gli
obiettivi. Ma il filo comune del rifiuto dell’attuale politica rischia
di trasformarsi in un cappio che strangola le libere elezioni.
La
destra che si era adunata sotto le bandiere di Silvio Berlusconi ora è
divisa e litigiosa come nel campo di Agramante, il centro ricorda quel
personaggio di Carosello che gonfiando il petto diceva «So’ Caio
Gregorio, il guardiano del pretorio», la sinistra non è di sinistra, la
sinistra-sinistra sembra Chingachgook, l’ultimo dei mohicani. E il
movimento di Beppe Grillo, la grande novità dell’antipolitica, appare in
fase opaca e involutiva, scontando l’ammonimento di Pietro
Nenni:«Quando fai il puro trovi sempre uno più puro che ti epura».
La
scena complessiva è tragicomica, un misto tra Robespierre, «la virtù
produce la felicità come il sole produce la luce», e Totò, «ma mi faccia
il piacere!». Lo spettacolo, una perenne campagna elettorale, non
strappa certo l’applauso ma neanche il voto. Che le urne restino aperte
un solo giorno o magari per una settimana, alla fine non cambia molto.
La
questione non è solo di casa nostra. In tutte le democrazie la
corruzione, il discredito, la sfiducia nei partiti vissuti come
sopraffattori e non come portatori di soluzioni alimentano il distacco
dalle istituzioni. Un male che mina anche le fondamenta dell’Unione
Europea. Lo scrittore belga David Van Reybrouck, convinto che la crisi
possa diventare irreversibile, è arrivato a proporre il ritorno al
sorteggio per le cariche politiche, come nell’Atene del Quinto Secolo (
Contro le elezioni-perché votare non è più democratico , Feltrinelli
editore).
Soluzioni bizzarre, che danno però il senso di un
allarme diffuso, generale. Adriano Olivetti, imprenditore illuminato e
utopista, già nel 1949, teorizzando le Comunità, metteva in guardia
dalla crisi del parlamentarismo: «Il mandato politico, nella sua vera
essenza, è soltanto un atto di fiducia degli uomini in un altro uomo».
Quando la fiducia non c’è, la democrazia muore.