Corriere 17.5.16
i militanti antipolitica
di Angelo Panebianco
Nella
patria di Machiavelli l’«autonomia della politica» se la passa
piuttosto male. È sfidata da un’ ideologia, potentissima perché fattasi
ormai senso comune, abbracciata anche da molti di coloro che non si
identificano in movimenti (detti) antipolitici. Ciò che viene definito
«antipolitica» oppure populismo, altro non è che la pretesa (destinata a
fallire, come si dirà, a sfociare nell’esito opposto) di negare
qualsiasi grado di autonomia alla politica, di farne la schiava, e
l’esecutrice, della morale comune in talune versioni, e del diritto in
altre.
Sono in azione in Italia due diversi «movimenti» di questo
tipo. Il primo è rozzo, il secondo è sofisticato. Quello rozzo opera
trasversalmente, coinvolge diverse forze politiche, usa argomenti con
cui «parla» alla pancia del popolo. È l’ideologia del «tutti ladri». Per
fronteggiare i fenomeni di corruzione non propone soluzioni tecniche
intelligenti. Ad esempio, ripristinare la certezza del diritto senza
bloccare gli appalti, semplificandone la disciplina, o mettere in campo
misure a favore di una forte crescita economica, il migliore antidoto
contro la corruzione.
N o, propone, puerilmente, di sostituire gli
«onesti» (futuri destinatari di avvisi di garanzia) ai «disonesti».
Finge di non sapere che è l’occasione (le circostanze date) a fare
l’uomo ladro.
Al di là dell’improntitudine di tante proposte, è
l’ideologia di fondo la cosa più interessante. Essa nega alla politica,
si tratti di vicende interne o di affari esteri qualsiasi autonomia.
Sostiene che i politici sono «cittadini come tutti gli altri». Cosa
assolutamente falsa: un cittadino comune rappresenta solo se stesso ed è
responsabile solo per se stesso. Un politico eletto in una democrazia
rappresenta altri ed è responsabile per loro. È quella falsa credenza
che spinse a togliere ai parlamentari le protezioni di cui godevano a
tutela del loro delicato ruolo.
Non si possono pretendere
ragionamenti troppo sofisticati da coloro che abbracciano la suddetta
ideologia. Per esempio, non si può pretendere che comprendano che morale
comune e morale politica sono spesso coincidenti ma talvolta non lo
sono. Fiat iustitia et pereat mundus , sia fatta la giustizia anche a
costo che il mondo vada in rovina, può essere la massima a cui si ispira
la vita di un sant’uomo ma non può guidare chi ha la responsabilità di
tutelare una collettività, per il quale la «salvezza del popolo» (della
repubblica) è il primo principio di moralità politica a cui il suo ruolo
gli impone di attenersi. Naturalmente, nelle nostre democrazie, i
leader sono tenuti a fare ogni sforzo per conciliare morale comune e
morale politica ma difficilmente questa conciliazione può avvenire senza
continue tensioni e contraddizioni.
Il secondo movimento è più
sofisticato del primo. Parla anch’esso alla pancia del popolo ma con
meno comizi (anche se chi guida le sue strutture associative i «comizi»
li fa eccome). È animato da un certo numero di magistrati che hanno
scelto un ruolo militante. Qui l’idea è che la politica debba essere
l’ancella del diritto e pertanto sottoposta a un rigido controllo, un
controllo molto più stringente di quello che si dà dove alla politica si
riconosce autonomia. Ma di quale diritto si tratta? Esso è sempre meno
rappresentato dalle leggi ordinarie, parlamentari, le quali sono,
ovviamente, il frutto di decisioni politiche. Il diritto a cui ci si
appella per negare l’autonomia della politica è soprattutto quello
costituzionale. È interessante leggere le argomentazioni di alcuni
magistrati che fanno oggi campagna per il «no» al referendum di ottobre
sulle riforme. È la Costituzione il loro punto di riferimento ed essa
deve restare immutata, intangibile.
Anche questo movimento vuole
negare autonomia alla politica. Lo fa in due maniere. Il vincolo
costituzionale viene ora interpretato — dalla Corte costituzionale ove
svolgono un ruolo decisivo i giudici che provengono dalla magistratura
ordinaria — in modo così stringente da permettere intrusioni sempre più
pesanti contro presunte violazioni da parte dei politici. Alcune
sentenze della Corte (come, ad esempio, quella sulla legge elettorale)
indicano che le barriere e, con esse, l’auto-limitazione da parte dei
giudici, sono cadute. D’ora in poi, presumibilmente, assisteremo a
sempre più frequenti invasioni di campo.
Il secondo modo è proprio
di alcuni settori della magistratura ordinaria per i quali
l’interpretazione della Costituzione non è affare che riguardi solo la
Suprema corte ma qualunque magistrato, il quale può usarla come fonte e
giustificazione dell’azione giudiziaria. Quando l’autonomia della
politica era rispettata, la magistratura ordinaria accettava che suo
compito fosse solo l’applicazione delle leggi votate dal Parlamento
(dunque dalla politica). Non credo passerà molto prima che anche
decisioni squisitamente politiche come quelle che riguardano il varo
delle leggi finanziarie finiscano al vaglio di procedimenti giudiziari
ordinari per presunte violazioni della Costituzione.
I movimenti
detti antipolitici hanno due problemi collegati. Il primo è che sono la
negazione della democrazia liberale, la quale si regge sulla relativa
autonomia delle diverse sfere di attività (politica, economica,
culturale). Si veda anche l’argomentazione convergente di Giuseppe De
Rita ( Corriere , 15 maggio).
Il secondo problema è che in caso di
successo tali movimenti generano l’effetto opposto a quello dichiarato
dalla loro ideologia: politicizzano in modo integrale l’intera società.
Annullando l’autonomia relativa delle diverse sfere di attività,
distruggono la democrazia liberale, la sostituiscono con una variante
del totalitarismo. Il totalitarismo è politica al massimo grado, occupa
ogni angolo della vita individuale e collettiva.
È consigliabile resistere all’antipolitica. Anche se in troppi oggi le si inginocchiano davanti. Acritici e deferenti.