Corriere 16.5.16
Scacciare l’Isis non basta
di Paolo Mieli
Ci
siamo (forse).Il colonnello americano Steve Warren, portavoce della
coalizione anti Isis, ha spiegato chelo «Stato di emergenza» dichiarato
nella città di Raqqa è da interpretare come l’inequivocabile segnale del
fatto che gli uomini di Al Baghdadi si sentono prossimi alla resa dei
conti. Cioè al giorno in cui sono destinati a soccombere. Ed è evidente —
ha aggiunto — che, se cadrà la «capitale siriana» del Califfato, andrà
in pezzi una parte rilevantissima della costruzione statuale degli
jihadisti. Nabil El Fattah ex direttore del Centro di Studi strategici
di Al Ahram del Cairo ha più volte illustrato come la penetrazione di
Daesh in Iraq e poi in Siria non si spieghi solo con la forza militare
messa in campo. Almeno agli inizi, i miliziani islamisti sono stati
visti dalle popolazioni sunnite dell’Iraq come una sorta di armata di
liberazione in grado di proteggerli dal potere sciita imperante a
Bagdad. E a Damasco. Nei territori conquistati, Isis ha poi messo in
piedi un suo welfare, creato ministeri, forze di polizia. Governava,
insomma. Con il terrore, certamente, ma anche con il consenso. L’ex
direttore dell’Economist Bill Emmott da ciò ha tratto la conclusione che
negli ultimi tre anni lo Stato Islamico ha avuto un grande potere di
attrazione proprio perché è riuscito a rendersi credibile come potenza, e
in particolare come una forza capace di affermarsi militarmente. Alla
stregua di uno Stato vero e proprio, che oggi governa ampie aree di
territorio in Siria, Iraq e, persino, in Libia.
Il suo successo
nel conquistare la città di Mosul in Iraq e Raqqa in Siria ha agito come
fonte di ispirazione per molti musulmani, in Medio Oriente, ma anche in
Africa o in Europa. Lo Stato Islamico non è attraente solo per la sua
ideologia o per la religione. Lo è nelle fantasie dei musulmani di Siria
e Iraq, per i quali starebbe facendo l’effetto che la creazione di
Israele, e poi la sua agguerrita difesa, fecero per quelle degli ebrei
in Palestina. Perciò — seguendo il ragionamento di Emmott — se ora
crollasse, sarebbe come se Israele in quanto Stato non fosse
sopravvissuto alla guerra del 1948-49. Un’autentica catastrofe.
Ma
è questo quel che sta davvero accadendo? Secondo una mappa pubblicata
due mesi fa dal Washington Post , tra gennaio 2015 e metà marzo 2016 il
Califfato ha perso circa un quinto del territorio che precedentemente
aveva conquistato. Altre fonti dicono il 40 per cento. Il mito
dell’invincibilità jihadista si è incrinato una prima volta (per merito
dei curdi) al momento della perdita di Kobane. Poi, spalleggiato dai
Sukhoi dell’aviazione russa, l’esercito di Assad, a fine marzo, ha
riconquistato Palmira, che nell’estate 2015 — quando gli incappucciati
dell’Isis avevano fatto saltare la tomba di Mohammed bin Alì e il tempio
di Baal — era divenuta la città martire della cultura mondiale. E un
concerto diretto da Valery Gergiev davanti a quel che restava delle
rovine (con un discorso di Putin in prudente videoconferenza dalla sua
residenza di Sochi) ne aveva celebrato la liberazione. Persa Palmira,
l’Isis reagiva riconquistando Yarmuk a otto chilometri da Damasco, a
danno del Fronte al Nusra, branca locale di Al Qaeda, i cui adepti — nel
frattempo — erano passati quasi tutti con Al Baghdadi. E qualcosa di
simile, probabilmente, poteva ripetersi ad Aleppo ma — onde evitarlo —
siriani e russi avevano preventivamente scatenato un inferno sulla città
attirandosi la riprovazione di tutto il mondo occidentale.
Da
quel momento si è iniziato a parlare di crisi dell’Isis, si sono diffuse
notizie di crollo del reclutamento (dai duemila dei tempi d’oro alle
duecento persone al mese), persino di diserzioni. Ma nel mondo islamico
la percezione di queste difficoltà era precedente di almeno sei mesi. La
ricerca annuale dell’Arab Youth Survey (su duecento milioni di ragazzi
del mondo musulmano tra i 15 e i 24 anni) ha rivelato in aprile che la
popolarità dell’Isis è in forte calo. Da tremila e cinquecento
interviste individuali in sedici Paesi, emerge che il Califfato ottiene
il consenso del 13%, con una discesa, in un anno, del 6%. E che, per di
più, l’approvazione è sorprendentemente condizionata dalla «rinuncia
della violenza». E dall’impegno alla costruzione — nelle terre
conquistate — di un futuro «più stabile».
Gilles Kepel sostiene
che l’Isis è in difficoltà dai tempi degli attentati di Parigi (13
novembre). Allora tra le vittime c’erano anche dei giovani musulmani,
ciò che è stato criticato persino nei circoli estremisti islamici. Un
conto è infatti colpire obiettivi come Charlie Hebdo a cui poteva essere
imputata l’irriverenza nei confronti di Maometto. Un altro è, invece,
sparare nel mucchio. Questo per quel che riguarda il reclutamento. In
più c’è adesso la perdita delle loro roccaforti. Fareed Zakaria
enfatizza la notizia che quelli dell’Isis abbiano perso territorio,
città, fonti energetiche, ma si pone la domanda: chi governerà quei
territori una volta che saranno stati liberati?
Ed è un punto
importantissimo. Ammesso infatti che le informazioni provenienti dal
Pentagono non siano frutto di propaganda atta a bilanciare le notizie
dei successi di Putin e Assad a Palmira (in dicembre dagli Stati Uniti
giunse la notizia che stava per essere liberata Mosul, la «capitale
irachena» dell’Isis, e poi non se ne è saputo più nulla), la caduta di
Raqqa e dell’intero Califfato sarebbero poca cosa se Stati Uniti e
Russia non fossero preventivamente giunti a un accordo sul successivo
controllo dell’intera area mesopotamica. E se la consegnassero a un
regime di caos anarchico, Al Baghdadi e la sua organizzazione
diventerebbero qualcosa di simile a quello che fu Al Qaeda ai tempi
dell’Afghanistan: troverebbero rifugio nel deserto dello Yemen da dove
riprenderebbero a ispirare attacchi in Europa. Poi, tra qualche mese,
tornerebbero nelle terre che furono loro tra Iraq e Siria. Ne discende
che sconfiggere l’Isis si sta rivelando qualcosa di maledettamente
complesso. Un gioco di specchi dove i successi rischiano di trasformarsi
in disfatte. Peggio, dove neanche riusciamo a immaginare quale possa
essere considerata una vittoria definitiva.
Cacciamo perciò gli
jihadisti da Raqqa e Mosul (e anche, quando verrà il momento, da Sirte).
Ma impegniamoci fin d’ora a prefigurare in che modo e da chi quelle
città — assieme alle terre che le circondano — dovranno poi essere
governate.