Corriere 16.5.16
Un Paese diviso, quattro governi
di Francesco Battistini
A
Sirte, a Sirte! Con poche strategie e molte chiacchiere, a sconfiggere
l’Isis adesso ci vogliono andare tutti. Vuoi mettere? Chi ce la fa,
diventa l’eroe dell’Occidente. Il baluardo dell’Europa. Il Peshmerga
della Libia che difende tutti noi e può quindi chiedere al mondo più
armi, più considerazione, un investimento politico.
Tutti a Sirte,
allora. Il generale Khalifa Haftar è stato il primo a radunare i
soldati e a lanciarsi col suo Libyan National Army, Lna. Il premier
Fayez Al Serraj è stato l’ultimo a capire che l’obbiettivo è simbolico,
il risultato appagante, e una settimana fa pure lui ha creato una
«coalizione delle milizie» di buona volontà (poche) per combattere
«tutt’insieme» (leggi: quasi nessuno) lo Stato Islamico. In mezzo si
sono mossi anche i militari di Misurata, tra i pochi che hanno davvero
le armi, e i loro alleati islamisti di Alba libica. Per non dire delle
tribù che circondano Sirte. O del Signore dell’Oro Nero, Ibrahim
Jadhran, che sotto Sirte controlla i pozzi e qualche giorno fa l’ha
detto ai suoi: «In un piccolo pezzo di terra ci giochiamo il futuro d’un
intero Paese».
Quanta retorica. In un Paese (anzi, tre) che ha
quattro governi e due Parlamenti — con un deficit al 54% del Pil,
riserve di denaro in esaurimento entro due anni, quasi 5 mila morti, 435
mila sfollati, un tasso d’omicidi che è dieci volte quello egiziano e
17 quello tunisino, il 40% della popolazione che ha bisogni umanitari e
il 60% degli ospedali distrutto — qualcuno pensa davvero che la priorità
del libico medio sia combattere l’Isis? L’unica cosa evidente ai
governi occidentali è che non tocca a loro. L’unica cosa sicura è che,
nel caso tocchi ai libici, lo farebbero ognuno per sé e tutti contro
tutti. «Una vergogna», commenta l’ Economist . «Un rischio troppo
grosso», dice una fonte diplomatica italiana: «Il primo, vero pericolo
di un’eventuale avventura militare occidentale è proprio questo:
l’assenza di un’alleanza sul terreno».
L’armiamoci-e-partite era
già sottinteso nella risoluzione 2259 dell’Onu, dove si stabiliva come
un intervento armato internazionale potesse venire richiesto solo dal
governo Serraj. E se il mite Serraj rimane paralizzato tanto dal veto
d’egiziani ed Emirati, i burattinai di Haftar, quanto dalla diffidenza
di Tripoli? «L’Italia, che non ha mai amato granché Haftar, corteggiato
invece dai francesi, non poteva certo mostrare simpatie per la
Fratellanza musulmana. È normale, oggi, che non possiamo contare su
nessun autentico alleato…».
Inaffidabili i tripolini e i
misuratini, scaricati per necessità internazionale, prima in favore del
governo riconosciuto di Tobruk e poi di Serraj. Irritabili quelli di
Tobruk che non hanno mai digerito la nostra ambasciata a Tripoli,
nonostante non ne riconoscessimo la legittimità. E irrecuperabile,
almeno all’apparenza, il rapporto con Haftar che per un anno ci ha
chiesto armi e soldi: l’Egitto è una variabile di questo scenario
militare e «la pace — spiega un deputato di Tobruk — può partire solo su
ordine del Cairo, dopo una ricucitura dell’Italia sul caso Regeni». Chi
credete ci sia dietro i nostri tricolori bruciati in tutta la
Cirenaica, le scorse settimane? E sapete come si chiama l’operazione
militare che il Generalissimo ha intrapreso verso Sirte? Al Qurdabiya.
Esattamente come quella che i libici scatenarono contro l’invasore
italiano, nel 1915…
Nessun amico, nessun nemico. La mancanza
d’alleati sicuri, per l’Italia, si porta dietro un altro pericolo: chi
dovremmo combattere? L’Isis, d’accordo. Ma dalla Tripolitania o dalla
Cirenaica? «Non sappiamo nemmeno quale possa essere il fronte», dice la
voce diplomatica: «A una guerriglia asimmetrica, contro autobombe e
attacchi terroristici, dovremmo unire una guerra a milizie che in una
zona sono amiche degli amici e, in un’altra, diventano amiche dei
nemici». A Zintan, per esempio: dove sostengono militarmente Haftar, ma
non tutti sono d’accordo con un suo ruolo politico, mentre alla lotta
all’Isis antepongono quella a Tripoli…
Tanta confusione spiega la
cautela degli americani — che in Iraq hanno inviato 5 mila soldati e in
Libia meno di 50 uomini in sei mesi — dovuta non solo alla scarsa voglia
di farsi coinvolgere: al Pentagono sanno bene che una campagna militare
è tutta da studiare. Forse pure il resto d’Occidente — dagl’inglesi che
hanno on the ground un centinaio di gruppi speciali Sas, ai francesi
asserragliati nell’aeroporto di Bengasi — va capendo: «Gli europei hanno
ciò che volevano, un governo Serraj formalmente d’unità nazionale —
dice in un suo rapporto l’analista Mattia Toaldo, uno dei maggiori
esperti sul tema —. Ora non dovrebbero farsi carico di richieste
irrealistiche, dalla fine della crisi dei migranti alla sconfitta
dell’Isis. Piuttosto, dovrebbero lavorare per rafforzare la politica del
governo Serraj nel controllo del Paese».
Già, il governo che non
c’è. Il pericolo maggiore. Come il controllo dei pozzi o la fine
dell’embargo sulle armi: due passi necessari, prima di marciare a
sconfiggere l’Isis. Non c’è campagna militare, senza un interlocutore
politico. E nessuno mette gli scarponi nel fango, finché il premier non
si sporca i mocassini nemmeno nelle strade di Tripoli.