Corriere 16.5.16
Sedotti dal doping mentale
Ma poi il cervello si ribella
di Elena Meli
È
successo per la prima volta mesi fa a Colonia durante l’ESL One
Contest, una delle gare più importanti fra videogamer professionisti:
alcuni giocatori sono stati sottoposti a test antidoping per evitare che
le performance alla consolle fossero «gonfiate» dagli stimolanti per la
mente. Già, sono sempre di più le pillole che promettono di migliorare
le prestazioni del cervello: dai farmaci come il metilfenidato usato per
curare il deficit di attenzione e iperattività al modafinil per la
narcolessia, molti medicinali vengono presi da chi è sano nel tentativo
di rafforzare memoria e lucidità di pensiero. E se la NZT che potenziava
le capacità mentali di Bradley Cooper in Limitless non esiste ancora,
qualche «smart drug» ci va vicino.
Così, mentre, settimane fa, il
neuroeticista Andrea Lavazza su BMC Medical Ethics sosteneva l’obbligo
morale di dichiarare l’uso di stimolanti cognitivi in situazioni di
competizione come colloqui di lavoro o test accademici, l’impiego di
questi farmaci sta decollando: il 20% dei chirurghi ha dichiarato di
averne fatto uso almeno una volta, nelle università gli studenti che
hanno sostituito il caffè e le sigarette con la pillola per restare
svegli e accendere il cervello sono in crescita, basta un clic online
per trovare stimolanti per tutti i gusti. Il prezzo da pagare però
potrebbe non limitarsi ai soldi sborsati per una «dose di intelligenza»,
come spiega il neuropsicofarmacologo dell’Università di Cagliari
Giovanni Biggio: «Molti di questi farmaci, spesso derivati
dell’amfetamina, stimolano aree profonde del cervello correlate al
piacere come il nucleo accumbens ma fanno perdere la capacità di
prendere decisioni corrette attraverso la corteccia cerebrale: si
modificano gli equilibri, si altera l’espressione dei recettori per i
trasmettitori cerebrali, ovvero i messaggeri che fanno dialogare i
neuroni, si può sviluppare una dipendenza. Usando gli stimolanti per far
lavorare di più la mente è come se forzassimo una serratura usando un
grimaldello anziché la chiave giusta: la porta si apre, ma non senza
danni. Che sono più gravi nei giovanissimi: fino a quando il cervello
non è del tutto adulto (succede attorno ai 25 anni nelle donne, a circa
28 negli uomini, ndr ) gli effetti di queste sostanze sono più intensi,
nel bene e nel male. Se si usano al liceo o all’università per studiare a
oltranza c’è il rischio concreto di ritrovarsi già a trent’anni con
sintomi cognitivi evidenti, come una perdita della memoria e della
capacità di attenzione e concentrazione». «L’impiego assiduo degli
stimolanti può provocare disturbi del sonno, portare a galla ansia e
depressione sotto soglia, avere conseguenze negative sulla salute
cardiovascolare – aggiunge Claudio Mencacci, presidente della Società
Italiana di Psichiatria –. Annullare il senso di fatica sovraccarica il
cervello e alla lunga non migliora neppure la performance: ciò che si
studia sotto stimolanti non si impara perché non si memorizza davvero».
Succede perché mantenere acceso il cervello più del normale riduce il
sonno, che nella nostra società iperattiva è ritenuto quasi una perdita
di tempo ma è invece essenziale affinché la mente lavori bene.
E
se i danni dell’uso improprio di metilfenidato, modafinil e simili sono
ben noti, i vantaggi possibili in realtà sono ancora da dimostrare:
secondo studi recenti gli effetti positivi sulle performance di chi non
ha deficit cognitivi ci sono ma non sempre sono rilevanti, in alcuni
casi si è perfino verificato un crollo della creatività. Il motivo per
risultati tanto contrastanti? Stando al neurologo Stefano Sensi
dell’Università di Chieti, che ha sperimentato modafinil sulla
performance cognitiva di persone sane, i farmaci attuali sono ancora
«primitivi» perché alterano troppi trasmettitori cerebrali assieme: un
potenziamento reale del pensiero si potrà avere, forse, con sostanze che
favoriscano la crescita dei neuroni o modifichino le reti neurali.