domenica 15 maggio 2016

Corriere 15.5.16
Ritratto trascinante di due donne Valeria e Micaela in stato di grazia
di Paolo Mereghetti

Scene drammatiche riservate a Ramazzotti, quelle più farsesche a Bruni Tedeschi
Una commedia coinvolgente, a tratti dolorosa, che accende il tifo nello spettatore
Forse non c’è altro regista italiano, oggi, che ami i suoi personaggi come Paolo Virzì. Li inventa e li modella con passione, li fa muovere e li segue con amore all’interno di storie create apposta per farne emergere tutte le caratteristiche. Non necessariamente positive, s’intende, ma sempre senza un’ombra di cinismo o di superficialità.
È la prima qualità che colpisce in questo La pazza gioia , accolto con molti applausi ieri alla proiezione all’interno della «Quinzaine des réalisateurs»: un film trascinante, coinvolgente, in alcuni momenti anche doloroso ma sempre attraversato da una passione contagiosa (e rara) per i suoi protagonisti.
Che sono due donne, Beatrice Morandini Valdirana (interpretata da Valeria Bruni Tedeschi) e Donatella Morelli (Micaela Ramazzotti), la prima aristocratica e la seconda popolana, entrambe ospiti di una comunità terapeutica per donne con disturbi mentali, entrambe alle prese con problemi più grandi di loro.
Beatrice è pesantemente bipolare, Donatella ha pulsioni suicide, di cui ha pagato le conseguenze anche il figlio (che le è stato tolto per affidarlo a un’altra famiglia). Si troveranno quasi senza volerlo libere da ogni controllo e inizieranno a girovagare, in una ricerca che cementerà la loro (ancor fragile) amicizia, una alla ricerca di un mondo che l’ha espulsa; l’altra per ritrovare l’unico legame che ha veramente contato, quello col figlio.
E per le strade di una Toscana mai oleografica, anche lo spettatore è invitato ad appassionarsi a queste due simpatiche «matte» (a chi le apostrofa così, sorpreso dai loro comportamenti, Beatrice risponde con bella autoironia: «Clinicamente lo siamo!»), a queste due involontarie ribelli che stanno pagando sulla loro pelle l’appartenenza a un mondo avido e conformista o squallidamente egoista e ottuso.
Un viaggio però fatto sempre o quasi con il sorriso perché La pazza gioia è soprattutto una commedia, scritta con maestria da Virzì assieme a Francesca Archibugi, ma soprattutto interpretata da una coppia di attrici in stato di grazia, Valeria Bruni Tedeschi e Micaela Ramazzotti: alla seconda sono «riservate» le scene più drammatiche, alla prima quelle più farsesche, dove ha la possibilità di dimostrarsi grande come forse non era mai stata, una specie di incrocio tra Franca Valeri e Monica Vitti (con l’ironia della prima e l’energia della seconda), capace di inanellare battute ed espressioni trascinanti e irresistibili. Due attrici straordinarie che una regia «al servizio di» permette di mostrare in tutta la loro bravura e amorevolezza. Più proseguono le loro disavventure — alle prese con madri poco affettive (Anna Galiena per Donatella, Marisa Borini, madre anche nella vita della Bruni Tedeschi, per Beatrice) o uomini inetti (Bob Messini e Bobo Rondelli per l’aristocratica, Marco Messeri e Tommaso Ragno per la popolana) — più il film inanella colpi di scena e diventa romanzesco e romanzato, più le due protagoniste possono dare l’impressione di essere «frenate», costrette come sono a fare i conti con il dipanarsi della storia (dalla comunità le cercano, i carabinieri portano Donatella in un Ospedale psichiatrico giudiziario, Beatrice vuole farla evadere per favorire l’incontro col figlio).
Ma quello che potrebbe sembrare un cambio di ottica registica (che mette meno a fuoco le sue due eroine e più gli accadimenti della storia) si rivela in fondo un passaggio obbligato per accendere il tifo nello spettatore e farlo partecipare emotivamente alla loro avventura.
Che trova così un modo differente ma sempre coinvolgente per amare Beatrice e Donatella, due ritratti femminili che non si scordano. E che confermano in Paolo Virzì uno dei pochi registi italiani capaci di unire la volontà dell’ottimismo (c’è sempre un po’ di speranza all’interno dei suoi film) con il pessimismo dell’osservazione.