sabato 14 maggio 2016

Corriere 14.5.16
I giovani dell’era della crisi che non amano il capitalismo
I risultati di uno studio dell’Università di Harvard danno un’indicazione importante sulle nuove generazioni. Nei ragazzi americani (e europei) qualcosa sta cambiando. Lontani dall’individualismo sfrenato, cercano un equilibrio tra l’Io e il Noi
di Maria Luisa Agnese

Nicola Thorp, giovane e bella ragazza inglese per il suo primo giorno di lavoro in PricewaterhouseCoopers aveva scelto un paio di scarpe basse. Ignorava che il dresscode aziendale prevedeva tacchi fra i cinque e i dieci centimetri e, una volta scoperta la regola, ha tentato di resistere. Invano. È stata licenziata dall’azienda e non difesa neppure dai sindacati, e alla fine si è sfogata su Facebook diventando una piccola bandiera della libertà di scegliere occidentale. Sì perché se a tutte noi piace ogni tanto salire su uno stiletto, non vogliamo però essere schiave della dittatura del tacco 12. Azzardando si potrebbe paragonare l’imposizione del tacco a quella del velo? I codici e i condizionamenti storici sui corpi delle donne sono insidiosi e difficili da decifrare su entrambi i fronti, tanto che una delle più attente femministe arabe, la marocchina Fatima Mernissi aveva, nei suoi libri, paragonato il «loro» velo alla «nostra» taglia 42. E neppure troppo provocatoriamente: nella sua concezione rappresentavano due schiavitù opposte e parallele in cui si vuole ingabbiare il corpo della donna perché, argomentava Fatima, «l’immagine di bellezza dell’Occidente può ferire fisicamente una donna e umiliarla tanto quanto il velo imposto da una polizia statale in regimi estremisti». Immagine suggestiva e che ci può far riflettere sulle nostre contraddizioni, con la consapevolezza però che noi, con un hashtag su Facebook possiamo decidere di scendere dai tacchi, e trovare anche persone disposte a seguirci, come è stato per Nicola Thorp. La differenza sta tutta qui: noi possiamo scegliere, è Voltaire che lo reclama, e vogliamo che continui a essere così. «Voglio essere libera, libera come una donna» cantava Andrea Mirò al Tempo delle Donne 2015, reinterpretando la famosa canzone di Giorgio Gaber. È il caso di ricantarla?
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Una recente ricerca condotta dall’Institute of Politics della Università di Harvard ha fatto discutere i media americani. Dai dati, risulta infatti che, nei giovani tra i 19 e i 25 anni, solo il 42% degli intervistati sostiene il capitalismo, mentre la maggioranza (51%) ne ha un’opinione negativa. Il Washington Post è arrivato a chiedersi se la crisi non stia cambiando gli orientamenti culturali delle nostre società: forse di fronte a un cambio generazionale destinato a trasformare gli equilibri economici e sociali?
Difficile dire come andranno le cose. Certo è che i dati della prestigiosa università sembrano confermare ciò che, da qualche tempo, segnalano anche altri istituti di ricerca: nella testa e nel cuore dei giovani americani (ed europei) sta cambiando qualcosa. Lontanissimi gli anni della contestazione, ma anche i tempi in cui a spopolare era l’affermazione soggettivistica del proprio Io, i giovani cresciuti nella crisi — specie quelli dotati di un buon livello di istruzione — esprimono sensibilità nuove verso la costruzione di un equilibrio più avanzato tra l’Io e il Noi, tra il sé e l’ambiente circostante.
Le ricerche dicono, ad esempio, che i millennials hanno maturato un orientamento critico tanto verso il liberismo sfrenato quanto verso lo statalismo aggressivo. Convinti della bontà dell’economia di mercato, pensano tuttavia che essa vada regolata e difesa dei suoi stessi eccessi e che sia importante il ruolo attivo che lo Stato può svolgere per garantire le condizioni della crescita.
Molto sensibili nei confronti della questione ambientale, i ragazzi sono convinti che il tema debba essere preso sul serio: non c’è più tempo per rinviare decisioni necessarie per la sopravvivenza del pianeta. Semplicemente perché sanno che sarà la loro generazione a dover sopportare i costi di una colpevole inazione.
Inoltre, i millennials fanno della tolleranza un valore fondamentale e ritengono che la convivenza delle diversità debba diventare un modo ordinario di convivere. Un atteggiamento che li rende anche aperti nei confronti dei migranti, visti più come risorsa che come minaccia. Chi arriva è titolare del diritto a costruirsi una vita migliore. Un diritto che gli stessi giovani vivono sulla loro pelle poiché sanno, per scelta o per necessità, che le loro possibilità di vita non sono legate al posto in cui sono nati.
Infine, l’affermazione personale non è contrapposta ai rapporti sociali. Per la propria vita i giovani aspirano a svolgere un’attività che riconosca le loro capacità, ma che al tempo stesso possa recare un vantaggio alla comunità nella quale vivono, al di là del puro reddito economico o della pura strumentalità. E considerano la qualità delle relazioni un ingrediente fondamentale per il proprio benessere. Una sensibilità che nasce da un’esperienza fondamentalmente positiva dei legami familiari, punto di riferimento sicuro e solido in un mondo incerto.
Si tratta, come si può vedere, di un pacchetto di orientamenti dotato di una chiara logica interna. Una logica relazionale. È come se la nuova generazione, di fronte ai guasti lasciati dal modello di sviluppo iperindividualistico degli ultimi decenni, stesse cercando di trovare un nuovo modo di pensare il legame con l’altro, visto come costitutivo e non minaccia della propria libertà. Riconoscendo, in buona sostanza, che non esiste l’Io se non in relazione.
Ovviamente le ricerche non dicono che tutti giovani la pensano in questo modo. E tuttavia esse riconoscono un orientamento prevalente, benché ancora frammentato e soprattutto privo di un discorso pubblico capace di renderlo riconoscibile e riproducibile. Ma, come già accaduto altre volte nella storia (l’ultima volta nel ‘68), anche oggi è probabilmente negli orientamenti di questi giovani che si può intravvedere una via per il nostro futuro. A condizione che, anche politicamente, le generazioni degli adulti e degli anziani siano disposte ad ascoltare le proposte e le istanze di chi ha vissuto la propria adolescenza lontano dei miti della crescita infinita; di chi cioè ha conosciuto sulla propria pelle i guasti e le contraddizioni di un modello in liquidazione.
Così, con forme, parole e modalità nuove siamo forse alla vigilia di un nuovo cambio di generazione. Che, possiamo tutti augurarci, potrebbe trasformarsi presto anche in un cambio di paradigma sociale.